
Il 20 novembre si festeggia, come ogni anno, la Giornata dei diritti sull’infanzia e l’adolescenza che l’Onu dal lontano 1989 ha sancito con la sua Carta, definendo tra essi il diritto all’istruzione e dello sviluppo dei talenti e delle capacità fisiche e mentali di ogni bambino nel mondo. Se penso al ruolo che l’istruzione scolastica ha avuto per me (per noi adulti di oggi) e paragono le modalità di allora alle tecniche fin troppo univoche con cui viene impartita di questi tempi, un brivido mi assale.
L’etimologia del termine latino «comprendere» alla base della conoscenza e dell’apprendimento significa, alla lettera, «fare proprio», «portare a sé» e il suo campo semantico rimanda automaticamente alla pienezza dei sensi percettivi, all’immediata fisicità, alla diretta corporeità. Abituata ai media e ad ogni forma di tecnologia, in un’epoca in cui il dominio del visuale e dello schermo touch-screen invade ogni campo del sapere, non riesco comunque ad eludere dal pensiero – chiamatela, se volete, nostalgia – tutte le implicazioni che quel vocabolo portava con sé. A cominciare dall’esperienza “concreta” di quei ricordi.
La conoscenza si trasmette in molti modi e su innumerevoli supporti, ma è un dato che in primis passa dal corpo, dal contatto, dalla vista, e…dalla carta. E se l’incontro con essa sta diventando un evento sempre più inusuale (ancora una volta per ragioni economiche e utilitaristiche), che siano almeno le sensazioni tattili del toccarla, l’odore nello sfogliarla, i suoni nell’accartocciarla a farcela ricordare per non relegarla nell’oblio e…farci meglio “capire” quello che su di essa è impresso. Per i diritti dei nostri figli, come l’Onu comanda.