Piazza Cavour è uno dei luoghi simbolo di Ancona. Circondata da alberi secolari e da palazzi austeri privi di vetrine, non è un luogo di ritrovo o di passeggio. Piazza troppo grande, forse per questo motivo attraversata di fretta. Qui, in pieno centro, si respira una strana aria di periferia. Seduto su una panchina ai piedi di un grande cedro, circondato da una nebbia che penetra nelle ossa, attendo la corriera che mi riporterà a casa.

Ogni città rappresenta un enigma o, se si vuole, una convenzione. Esistono tante città quanti sono i punti di vista dei suoi abitanti, i loro vissuti. E così a volte ci troviamo a percorrere strade che credevamo familiari e che si trasformano, invece, in labirinti spaventosi. Come nel peggiore degli incubi, rischiamo di precipitare in un baratro.

Proprio in questa piazza, un ragazzo di diciotto anni ha confessato di essersi procurato la pistola, completa di caricatori e proiettili, con la quale, lo scorso 7 novembre, ha ucciso la madre della sua ragazza e ridotto in n di vita il padre, nel loro appartamento. Stando alla ricostruzione degli inquirenti, sembra che il ragazzo, mentre sparava, avesse le movenze di un killer di professione, ispirate probabilmente da qualche videogame. Sembra anche che la ragazza abbia assistito impassibile al massacro dei genitori.

Ripenso a questo sconcertante delitto, e ad altri analoghi episodi di cronaca che, recentemente, hanno visto come protagonisti alcuni adolescenti. Mi torna in mente una lettera pubblicata dal quotidiano La Stampa il 27 ottobre scorso. Descrive le giornate vuote dei giovani di periferia: «Hanno diciotto anni, ma i loro volti sono invecchiati, così come i modi di fare e di parlare. Non c’è vitalità. Mentre i giovani del centro fioriscono, fanno esperienze, imparano lingue, in periferia ci si distrugge. Non c’è conflitto, solo un sussulto al nuovo messaggio di “Whatsapp”, e poi soli nella solitudine di famiglie che soffrono tutte per lo stesso motivo, ma come granchi non riescono ad uscire dal secchio, perché fuori non c’è nessuno che tenda loro una mano».

In questo vuoto annoiato, può esplodere improvviso un conflitto che non si è in grado di governare. Irrazionale. Stupido. Feroce. Come nel delitto di Ancona. Quanta rabbia può covare, quante incomprensioni, dentro famiglie apparentemente normali? Mi chiedo cosa pensino, delle nostre famiglie in affanno, gli adolescenti che incrocio per strada. Frequentatori di periferie reali, o di vite marginali sognate ascoltando musica da un paio di auricolari. Protetti da felpe inaccessibili. Ogni adolescenza in fondo è un “vivere contro”. Un mondo di assoluti, costruito a fatica: a volte contestando, a volte assorbendo lentamente, come un farmaco o un veleno, valori e miserie del mondo degli adulti.

Chissà di quanta violenza si sono nutriti, Antonio Tagliata e la ragazza sedicenne, per maturare il loro gesto folle. Violenza psicologica. Violenza sica, vera o virtuale. Ecco uno dei tanti risvolti inquietanti di questa tragedia: c’è una violenza latente che si annida nei punti oscuri delle nostre città, e attende il momento opportuno per rivelarsi. Bisogna vigilare. In fondo la fragilità degli adolescenti ci è compagna: anche nel nostro immaginario di guerra albergano a volte deliri violenti, dai quali prendere le distanze.

Giancarlo Cartechini

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