La decisione della Corte costituzionale in ordine ai referendum proposti da alcune Regioni per impedire le trivellazioni nel Mare Adriatico alla ricerca di idrocarburi e per rivendicare la propria competenza nel rilascio delle autorizzazioni, riporta all’attenzione due questioni che meritano qualche considerazione. Non mi riferisco al merito della decisione, che ha ammesso uno dei referendum escludendone altri, quanto alla questione della opposizione alle trivellazioni e al ruolo che le Regioni tendono ad assumere nei confronti dell’opinione pubblica e del Governo centrale.

È noto che in buona parte dei Paesi occidentali è diffusa quella che viene comunemente chiamata la sindrome del “non nel mio giardino”, vale a dire l’opposizione dei cittadini nei confronti delle possibili localizzazioni di attività o impianti pericolosi nel o in prossimità del proprio Comune. Le obiezioni ricorrenti vanno dalle preoccupazioni per la salute a quella per la tutela ambientale. Il nostro caso non è diverso, con aggiunta di motivazioni che attengono alla connessione con i terremoti sulla terra ferma, alla irrilevanza degli eventuali giacimenti, ai danni per il turismo.

Si potrebbe dire che l’insieme delle obiezioni si può ricondurre al rifiuto della disponibilità a correre dei rischi per mantenere il livello di vita acquisito e non si trova contraddittorio acquistare da altri Paesi, che si accollano tutti i rischi, le risorse che servono alla nostra società, sia per le attività produttive che per i consumi familiari. Così non scandalizza comprare l’energia elettrica prodotta con le centrali nucleari nel territorio francese o svizzero a ridosso dei nostri confini, come se così fossimo al riparo dai rischi, né scandalizzerà comprare il petrolio che Croazia e Montenegro estrarranno dal Mare Adriatico. Non abbiamo eliminato il rischio e per giunta paghiamo a caro prezzo ad altri Paesi quello che potremmo produrre in casa.

La seconda questione riguarda il comportamento di alcune Regioni che, sulle trivellazioni nell’Adriatico, hanno finito per allinearsi alla regola del “non nel mio giardino”, facendosi portavoce di un’opinione pubblica forse ostile alle autorizzazioni da rilasciare. Sembrerebbe che l’interesse nazionale a cercare di ridurre la nostra dipendenza energetica, che incide pesantemente sul nostro sistema economico e sui bilanci famigliari, e a rendere peraltro meno incerto l’approvvigionamento, sia un interesse del solo Governo nazionale e non anche delle Regioni e dei Comuni, che pure governano le stesse popolazioni che sopportano i costi della dipendenza e dell’incertezza. Forse è più facile acquisire consenso politico facendo da cassa di risonanza delle paure dei cittadini.

Sicuramente c’è un problema di carattere istituzionale che riguarda la stessa possibilità di curare e tutelare interessi nazionali senza essere paralizzati da istituzioni portatrici di interessi locali. La ripartizione delle competenze tra Stato centrale-Regioni-Comuni prevista dalla riforma della Costituzione del 2001 ha contribuito notevolmente a generare questo paradosso e ad alimentare una conflittualità tra livelli di governo che confonde l’interesse generale con la sommatoria degli interessi particolari.

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