Sono le mani più attese. Arrivano da fuori precedute da un passo che ascolti e riconosci quasi con timore. E’ il passo di un soldato che infila le sue mani sicure tra le sbarre e al giro di un lucchetto ti restituisce la libertà. Poi incontri il viso che con fare severo e autoritario ti fa cenno immediato di uscire. E tu obbedisci e sei fuori, lasciandoti alle spalle una folla di uomini e donne che invece rimangono prigionieri, dentro una città di cemento, acqua di scolo, panni che volteggiano nell’aria e odori contrastanti di cibo e umanità; prigionieri forse delle loro colpe, forse di una giustizia violata.

Domenica mattina alle 9 nella prigione di Lomè si celebra la messa cattolica. Arriviamo presto nello spazio che ci fa attendere l’arrivo del sacerdote, un’area di sabbia con alcuni sedili in pietra, moto, galline, capre e soldati che si aggirano con sospetto. Sono con Theo questa mattina, lui è un abituè della prigione. Io ho scelto di andare un po’ istintivamente. Mi siedo accanto a una suora francescana. E’ tutta vestita di bianco. Un colore che io avrei evitato per entrare in prigione che immagino buia e sporca. E invece quel colore è già un bel presagio di ciò che ci attende. E’ il bianco della purificazione, di chi entra a portare una parola che restituisce candore e speranza.

Bianco è anche il sacerdote che arriva poco dopo. Le parole che scambio in francese mi mettono subito al corrente dell’atmosfera del carcere. La suora viene tutte le domeniche a condividere la messa e a portare saponi e vestiti. Poco dopo ci raggiunge anche suore Agnese. Che bello rivederla. Un altro volto che inizia ad essere familiare per me. E’ un’anziana suora missionaria comboniana. Una vita passata in Africa, prima in Congo e poi in Togo. E’ magrissima, un ciuffo grigio le è scappato dal velo. Ha il viso solcato di rughe. Mi saluta con affetto. E lei a raccontarmi che va alla prigione anche il martedì per portare le medicine alle donne carcerate.

Man mano arriva gente, un ragazzo con abito da chierichetto, una donna africana, il diacono, un’altra suora francescana e una donna anziana che scopro poi chiamarsi mama Therese. Theo consegna i nomi al punto di controllo e una guardia ci invita ad entrare. Il cancello si apre. Ma dietro solo una piccola stanza dove attendiamo ancora un po’. Therese è proprio una mamma e si prodiga per far in modo che tutti abbiano un posto seduti.

E’ simpatico il giro di posti che si crea per far sedere tutti. Il gioco dura poco. Ad un altro cenno entriamo. Altro cancello che si apre. Il nostro corteo entra in processione tra un mare di gente che si spalanca dinanzi a noi. Passiamo un cortile strettissimo. Io mi preoccupo di non bagnarmi i piedi. Un rivolo di acqua scorre per terra di un colore poco limpido. Incrocio qualche sguardo, saluto, sorrido. Sento sguardi curiosi intorno a me. Curiosità diverse che si prendono per mano. Anche io mi chiedo quali storie abbiano alle spalle queste persone. Davvero una folla di gente, che cucina, lava, si fa spazio dove spazio non c’è. Arriviamo in un atrio più grande dove è allestito un altare. C’è già un coro che canta con campane e jambè. Dopo un po’ vedo anche una testiera e la tromba. La messa inizia in grande stile. Sono tutti uomini i presenti, giovani, occhi segnati, ma sguardo in cui se ti perdi scopri la scia di una speranza. Non so perché mentre li osservo sento solo un profondo rispetto per ognuno di loro. E capisco che siamo tutti esseri umani fragili e peccatori. Dentro storie diverse, dentro vite che comunque hanno messo tutti alla prova. E mentre la celebrazione procede tra letture in francese e evè è sempre più viva la certezza di essere tutti figli. Mi colpisce sempre che figlio di Dio si dica in francese «enfant de Dieu». Piccolo di Dio. Piccolezza. E’ questa la parola che oggi mi arriva da questo incontro dentro la miseria più profonda.

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Piccola io, che sono lì a portare poco meno di un sorriso, piccoli tutti loro che ascoltano con ardore le parole di un sacerdote che li invita a credere nella libertà. Quella libertà autentica che viene solo da Dio. Davvero travolgenti le parole del sacerdote. Senza mezze misure. Ricorda ad ognuno la propria responsabilità, ma anche la possibilità che oggi il Signore dà di ricominciare ascoltando una parola che parla di speranza e liberazione e invita a portare la pace, senza sacco, né bisaccia, né argento. Ma con la forza di chi sa di essere mandato da Dio. E questa parola, incredibile, è proprio per loro. Una parola che chiede la loro presa di coscienza, una parola di vita che cambia la vita. Parole sferzanti che sono un invito al cambiamento. Non si può partecipare all’eucarestia e restare come prima. La libertà dal peccato prima di tutto nasce proprio lì dove si è. Perché la libertà che può restituire l’uomo non è nulla rispetto a quella che viene da Dio che per primo ha vissuto la sofferenza, la miseria, la solitudine di una terribile condanna, quella in croce.

Non avevo mai colto la forza della croce. Il Dio onnipotente si fa crocifiggere per entrare sulla scena del mondo e condividere proprio con gli ultimi la sua divinità. La croce, la peggiore delle condanne all’epoca dei romani, ricorda ancora oggi da quale parte si mette Dio. Un Dio di parte, un Dio che parte dal prendere la sofferenza e l’errore su di sè per dirci che tutto può rinascere. Sempre, anche in un carcere. Il momento finale è una festa. Si balla. Gioia che sguscia abbondante da corpi in movimento.

Il ragazzo che è dietro di me mi dice grazie in un italiano stentato. Gli chiedo il nome. Si chiamo Felice. Scrivo il suo nome nel cuore. Gli do la mano e lui mi sorride. Il suo sorriso scende giù nella mia anima. Non lo lascio andare…oggi Felice lo porto con me. Fuori dalla prigione, in quella libertà che a volte mi illudo di avere e che invece a volte ha più grate e sbarre di un vero carcere. Felice, è oggi per me memoria di libertà vera. Mi ricorda che non è importante dove sei, ma ciò che vuoi. E se cerchi la libertà, chiedila a chi è Padre e accetta la strada che lui ti indica. Accetta di essere figlio.

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