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Caro Gesù, a Natale ti scrivo perchè…

(foto Luca Maria Cristini)

Giusto qualche giorno fa, passando distrattamente davanti la tv. L’attenzione è richiamata (quasi per caso) da uno dei vari servizi di colore del tg. Senza eccessiva enfasi, tra le notizie della giornata, scandite come sempre da cronaca nera o politica, scorre il racconto di un’esperienza formativa in cui si insegna ai piccoli a riscoprire la bellezza della scrittura, la cura per la calligrafia. La responsabile spiega alla giornalista la necessità di aiutare i ragazzi a non cedere alla tentazione dell’onnipresente touch screen, perchè il rischio incombe: disabituarsi all’uso, poetico e sempre affascinante, della penna.

Il pensiero corre veloce a questi giorni di contagiosa frenesia che precedono la (ri)nascita più attesa, a quell’Avvento in cui prepararci ad accogliere il Mistero dell’uomo. Alle letterine destinate a Babbo Natale o a Gesù Bambino, perchè, si sa, in questo tempo «si è tutti più buoni».

La scrittura e la festa, i vocaboli donati, accolti e custoditi e i minuti lenti che i bambini afferrano per scegliere i termini migliori, la fretta di raccontare e raccontarsi nei social network dove ci si accaparra, ogni giorno, un pezzo in più di visibilità, ma si azzoppa il puro, insostituibile fascino del tratto nero su una pagina bianca. Il passato e il presente: le memorie dei nonni che, tra “fioretti” e favole, facevano imparare il gusto e il senso di affidare a Qualcuno la preziosità di un gesto scritto in un foglietto, la modernità dei display in cui ogni riga si sovrappone all’altra, gli accenti si perdono, ci si “tagga” senza francobollo.

Ben sappiamo quanto la tecnologia possa contribuire a rendere gli uomini e le donne di oggi più connessi, più efficienti, più presenti, più dinamici. Ma anche più soli. Un’affermazione che sa di pessimismo? No, è realismo. In questi mesi di angoscia e di preoccupazione per via di un terremoto che ha sconquassato le stanze e gli animi di tante persone, spaccato il vissuto ordinario di tante famiglie, molto dobbiamo alla Rete, e alla celere funzionalità con cui le applicazioni e ogni sua risorsa ci consentono di lavorare e relazionarci con più semplicità.

E poi, puntuale, arriva Natale, armonica parentesi dell’anno in cui non si smarrisce quell’atto sacro di scrivere. Su carta. Un biglietto di auguri, una dedica. Una lettera, appunto, in cui grandi e piccoli sembrano svuotare il cuore, alla ricerca di una risposta più forte di ogni umana paura. «Viviamo un periodo di grande incertezza. C’è una crisi economica che è anche una crisi culturale: in tutto ciò la gente cerca elementi di rassicurazione e il passato è una grande fonte di conforto», sostiene il sociologo Vanni Codeluppi. Che la riscoperta delle antiche tradizioni, tra cui quella di un foglio a cui confidare sogni e promesse, possa essere un poco terapeutico, per tutti?

Chissà. Forse in queste festività con cui il 2016 volge al termine portando via con sè – auguriamocelo – il terrore di notti insonni e l’urgenza di un futuro da ricostruire, risorge in tutti quella nostalgia di un essenziale chiamato amore. E bisogno, ora più che mai, di sentirsi uniti. Di credere che, sebbene tutto forse non tornerà esattamente come prima, comunque questo dramma un insegnamento e un’opportunità di crescita li concederà: perchè – e lo abbiamo sperimentato – è questione di un attimo, e il domani assume una prospettiva diversa, del tutto nuova. Il vescovo Nazzareno Marconi l’ha ripetuto più volte, in diverse circostanze, a partire da quell’indimenticato 24 agosto: «Siamo tutti un po’ terremotati». Come se quel che è accaduto avesse cambiato per sempre, dentro e fuori, qualcosa delle nostre placide esistenze. Lo sciame sismico ancora prosegue, però adesso… «basta che basti!», come ripete un caro amico, in un gioco di parole che comunica verità.

Parole, appunto. A tal proposito, scriveva così Elio Vittorini, in «Diario in pubblico»: «È in ogni uomo di attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare la sostanza di una cosa. Ed è nello scrittore di crederlo con assiduità e fermezza. È ormai nel nostro mestiere, nel nostro compito. È fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto ad ogni indagine. Ma è l’ottimismo che se ne va sempre per ultimo, e che dunque serve, sovente, di più lungo aiuto».

Coltiviamo, allora, questo ottimismo, ad iniziare dagli aggettivi, dai verbi. Ricordiamoci quanta forza e quanto potere, nel bene e nel male, possiamo riversare in ogni carattere. Nella “lista” di Natale, un Natale che tanta gente si troverà ad affrontare in situazione di permanente provvisorietà, che la nostra lettera sia corretta, nella sostanza più che nella forma. Siamo noi i regali, invece di comprarli, infondendo fiducia a chi magari ha perso il lavoro. Ricoprire i giocattoli con la carta decorata? Semmai, avvolgiamo il prossimo, specialmente chi è disorientato e ancora impaurito dalle scosse, con un abbraccio. Depositare i pacchetti? Piuttosto, consegniamo pace, a partire dalle nostre piccole Chiese domestiche. Offriamolo il cibo, invece di comprarlo, e facciamolo con altruismo sincero. Decorare l’albero è meraviglioso, è simbolo di festa, così come realizzare il presepe per ricordare la Natività e l’esempio della Santa Famiglia di Nazareth: ma siamo capaci di allestire in chi ci è accanto, specialmente nei malati o negli anziani, uno sguardo di amore disinteressato? Ammirare la luce che ravviva i balconi incanta, eppure sarebbe straordinario se fossimo noi la vera luce in questo mondo stravolto dai fanatismi…

Sorridere pensando a chi non ha la fortuna di trascorrere le feste in piena serenità non è semplice, ma che gioia davvero ricca sarebbe se nelle nostre lettere e letterine, stampate nell’animo fra mille incertezze dettate dalla natura e dalla storia, avessimo chiara questa certezza. Che il Natale stesso, come asserisce monsignor Giuseppe Betori, «è una grande esperienza di precarietà, perché Gesù nasce in una situazione di assoluta precarietà. Noi abbiamo bisogno del messaggio positivo che viene dal Natale precario di Gesù». L’unico, vero destinatario speciale a cui rivolgerci con una speranza a tempo indeterminato.

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