Dopo l’approvazione della cosiddetta legge sul Biotestamento in via definitiva al senato, (180 voti favorevoli, 71 contrari e 6 astenuti) diverse sono le perplessità sorte dall’opinione pubblica e non solo. A tal proposito l’Azione Cattolica Nazionale ha diramato una nota che pubblichiamo integralmente.


La discussione al Senato della cosiddetta “legge sul fine vita” ci porta ancora una volta ad avvertire la necessità di un confronto serio, alto, non ideologico né strumentale su come la nostra società e la nostra politica stanno affrontando le tante questioni che il nostro tempo pone rispetto alla salute e la malattia, la tutela della vita e la cura di chi si trova ad affrontare la morte, l’affiancamento nel dolore e il senso autentico della libertà e della responsabilità di ciascuno.

Sulle caratteristiche della legge in votazione, sui suoi limiti, i pericoli e le possibilità che essa comporta si sono moltiplicati, soprattutto in questi ultimi giorni, i pareri degli esperti, giuristi, medici, filosofi morali, esponenti della politica e del volontariato. Si sono espressi più volte importanti rappresentanti del mondo ecclesiale, pastori, laici, operatori del settore sanitario. Le opinioni emerse nel corso di un dibattito inevitabilmente complesso e difficile da padroneggiare fino in fondo sono state, come naturale, legittimamente diverse. Molte però sono state le voci autorevoli che hanno messo in luce i difetti della legge. Basti pensare al giudizio espresso congiuntamente dalla Facoltà di medicina e dalla Fondazione del Policlinico Gemelli proprio in questi giorni.

Il punto di riferimento con cui orientare lo sguardo per potersi formare un giudizio è chiaro e preciso: sì alla cura della vita in ogni suo istante, no all’accanimento terapeutico, sì al rapporto fiduciario e responsabilizzante tra staff medici e pazienti e sì a un accompagnamento collegiale di tutta la rete di persone coinvolte nel prendere decisioni difficili e dolorose, no all’eutanasia. Più complesso è valutare il provvedimento in votazione nei suoi singoli aspetti. Si può dire però che si tratta di una legge che introduce un’accezione estensiva del concetto di terapia e non concorre, invece, a rafforzare la centralità della relazione tra medico, paziente e altri soggetti coinvolti, rischiando di rendere le cose più complesse, invece che più chiare. A meno di significative correzioni, dunque, quella in discussione sembra una legge destinata a creare più problemi di quelli che vorrebbe, in maniera troppo meccanicistica per un ambito in cui i confini sono così labili, tentare di affrontare.

Forse però non è innanzitutto importante, in questo momento, aggiungere una voce ulteriore alle tante che già si sono pronunciate per sottolineare la problematicità della legge. Quello che sembra più urgente, ancora una volta, è sottolineare anche oggi la necessità di tornare a confrontarsi e a discutere su ciò che sta a monte di questa legge. C’è bisogno di far crescere un dialogo serio tra le diverse culture e le differenti tradizioni politiche che abitano la nostra società sul modo con cui concepiamo la vita e la morte, la malattia e la cura, la libertà e la responsabilità di ciascuno. E questo ci chiede anche di domandarci se in questi anni abbiamo saputo, da credenti impegnati nel mondo come cittadini, trovare parole, gesti e occasioni per argomentare la convinzione profonda che la vita non è (solo) nostra, non è un bene disponibile, non appartiene (solo) a noi stessi, ma quantomeno, per chi non crede, a tutta la trama di relazioni personali e sociali che le danno forma. Bisogna domandarci se abbiamo avuto la capacità di educarci ed educare le persone a vivere l’esperienza del dolore e della malattia, se abbiamo fatto tutto il possibile per stare con rispetto, amore, delicatezza a fianco di chi sperimenta la fatica di misurarsi con la morte, con la paura, con la solitudine. Se abbiamo saputo offrire valori ideali e risposte concrete alla fatica esistenziale che molte volte sperimenta chi è coinvolto in queste esperienze. Se abbiamo saputo fare cultura, o solamente opporci a quella almeno apparentemente dominante.

Dobbiamo chiederci, allora, se e come sapremo fare del passaggio rappresentato da questa legge non una ragione di scontro ideologico, di rifiuto della cultura dentro cui siamo immersi e di allontanamento dalla concreta esistenza di tante persone, ma l’opportunità per cercare di nutrire il nostro tempo con i dubbi, le speranze e le convinzioni che nascono da una concezione di bene radicata nella ragione e illuminata dalla fede.

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