Carissimi Vescovo Nazzareno e dirigenti diocesani dell’Azione Cattolica, concordo sulla necessità che la parrocchia sia aperta e missionaria, fino ad annullare una certa mentalità – fatte salve alcune esperienze – resistente al cambiamento. C’è difficoltà a comprendere le Unità Pastorali quali strumenti funzionali di una Chiesa in uscita. È vero, come voi scrivete, che «forse fare Unità Pastorale significa un po’ morire…». Ma ce lo dobbiamo permettere, perché questo tempo lo esige. In una Parrocchia o Unità Pastorale, con presenze molteplici di associazioni e movimenti, per vivere un vero rapporto di «comunione nelle differenze» è necessario «un po’ morire» a se stessi: cambiare mentalità e metodo per affrontare le sfide dell’oggi, praticare la logica del dono, amarci l’un l’altro come Gesù ama noi, vivere l’unità nella diversità secondo la dinamica trinitaria. Perciò, il modello relazionale da seguire – per dirla con Papa Francesco – è quello del «poliedro», assai inclusivo, «che riflette la confluenza di tutte le parzialità che mantengono la loro originalità. L’azione pastorale e quella politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno». Allora riusciremo ad esercitare una spiritualità di comunione per l’incarnazione, a costo di perdere le nostre certezze, la denominazione di origine o il diritto d’autore. D’altra parte se per Amore non si rinuncia a qualcosa, come si fa a portare frutto? Nessuno di noi detiene la verità, ma se il dialogo (parola che il Papa ha ripetuto all’Azione Cattolica ben cinque volte) è sincero e autentico, allora, come dice il teologo Piero Coda: «gli interlocutori ponendosi in ascolto l’un l’altro, mediante il dialogo si pongono in ascolto della Verità che si dischiuderà in mezzo a loro. L’evento della Verità, infatti, è l’evento dell’Agàpe trinitaria (= amore gratuito) nel dialogo fra gli uomini».

Passando ora alla politica, non deve sfuggire chePapa Francesco afferma che essa «è una vocazione altissima, una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune. Dobbiamo convincerci che la carità è il principio anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici». Questa affermazione ci aiuta a non fare di tutta l’erba un fascio, dato che anche da cattolici impegnati (come pure da qualche pulpito!) si sente dire che «la politica è sporca, i politici sono ladri e tutti uguali…», atteggiamento molto grave, perché, oltre prestare il fianco all’astensionismo e all’antipolitica, genera o aumenta l’accidia.

Pertanto, per esercitare la politica con la P maiuscola, oltre la competenza e la preparazione, occorre una crescita della coscienza politica in senso qualitativo (non data da titoli, lodi e prebende!), praticando, come insegna La Pira, il discernimento sapiente delle situazioni e dei mutamenti, nel dialogo oltre gli steccati ideologici. La recente esperienza vissuta assieme ad alcuni giovani impegnati a formarsi sulla Dottrina sociale della Chiesa (Dsc), ci dice che la carità politica si vive anche nel nostro territorio, dato che le testimonianze di amministratori, politici, sindacalisti ed economisti, in funzione del bene comune anche pagando di persona, ce lo hanno in concreto dimostrato. Anche questa esperienza tra giovani e politici appare uno di quei segni di speranza individuati da Papa Francesco fra «tante buone pratiche che sono come la foresta che cresce senza fare rumore». Basta affinare lo sguardo per vedere questi segni «non isolatamente, ma “in prospettiva” – diceva La Pira – rapportati all’intero movimento della storia, vederli alla luce del mistero della Provvidenza che tutti gli eventi della storia umana dispone in vista del suo disegno totale, che abbraccia tutti i popoli, di misericordia e di redenzione».

Perciò occorre insistere su una formazione ad hoc, senza dimenticare che Il Papa, affermando che «la realtà è più importante dell’idea» ci esorta ad uscire dalle ideologie ma senza annullare le idee, poiché tra la realtà e l’idea si deve instaurare un dialogo costante e l’idea è in funzione del comprendere e dirigere la realtà». Per una formazione di qualità, dunque, non occorre «partire da un libro da imparare a mente», né scomodare i massimi sistemi o strane battute del tutto fuori luogo e tempo. Come raccomandato da Papa Francesco a Firenze, occorre invece riprendere in mano l’Evangelii gaudium, dove, tra l’altro, egli ribadisce che «per riflettere sulle questioni socio-politiche disponiamo di uno strumento molto adeguato nel Compendio della Dsc il cui uso e studio raccomando vivamente». Pertanto, in vari convegni diocesani, Pastorale sociale e Azione Cattolica insieme abbiamo appunto rilevato che, «come afferma il Compendio, è necessario inserire la Dsc nella catechesi ordinaria, nei percorsi formativi di parrocchie, giovani, famiglie e associazioni, sperimentando una pastorale integrata». Ciò perché manca una specifica «penetrazione dei valori cristiani nel mondo sociale, politico, economico». E poi per essere vera Chiesa in uscita, è necessario che «sacerdoti e laici, siano ben preparati nel saper leggere i segni dei tempi e affrontare le odierne sfide, combattere sia la cultura del relativismo sia le presenti tendenze spiritualistiche e clericali. Come Chiesa tutta dobbiamo riappropriarci della forza della profezia senza perdere coraggio e speranza. Abbiamo un grande patrimonio: il Vangelo sociale, i documenti conciliari, la Dsc scritta col sangue dei martiri. Dobbiamo capire e amare i testimoni scomodi (per questo maestri!) non solo dopo la morte. Hanno dato la vita per la causa degli ultimi e sono riusciti a denunciare le nostre contraddizioni e incoerenze rispetto ai grandi temi sociali, che spesso trascuriamo stando alla finestra o solo in difesa, chiudendoci nel recinto di una cittadella blindata, tra apparenti sicurezze, credendo illusoriamente di salvarci l’anima».

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