di Amedeo Cencini

Era successo anche al Sinodo nell’ottobre scorso: il Sinodo dei vescovi sui giovani è sembrato diventare un po’ alla volta il Sinodo dei giovani sulla chiesa, così l’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali con il Papa in Vaticano sulla protezione dei minori ha dato sempre più voce e autorità alle persone abusate. Forse è frutto della sinodalità quando diventa davvero modo di discernere nella Chiesa, ma in ogni caso questo simposio ha messo sempre più al centro dell’attenzione generale proprio coloro che gli abusi li hanno subiti e la loro sofferenza, come grido o denuncia, come supplica perché tutto ciò non succeda più o liberazione d’un peso tenuto per troppo tempo nascosto, come racconto fin troppo brutale di ripugnanti violenze e provocazione coraggiosa perché chi deve capire capisca, senza più scuse. E la chiesa ha ascoltato. Non solo, ma s’è lasciata ferire da tali ferite e convertire da quest’ascolto.
Perché è giusto che sia così, è un passaggio necessario, e forse mai come nei giorni del summit romano la Chiesa lo ha capito e sperimentato.

Le vittime ti cambiano il cuore, ti fanno capire la gravità della violenza loro fatta, ti spalancano davanti l’abisso di sofferenza in cui l’abusatore le ha scaraventate, t’impediscono di pensare che basti esser comprensivi ed empatici, ma occorre sentire come propria la loro sofferenza.

E ancor prima riconoscere nelle loro cicatrici quelle di Cristo che in ciascun abusato continua la sua passione.
Ma c’è ancora un altro passo che l’ascolto delle vittime ti spinge o costringe a fare: è impossibile entrare in queste storie, nella squallida spirale progressiva dell’abuso, coi suoi passaggi, seduzioni, inganni, ipocrisie, violenze…, senza sentire che quella storia t’appartiene. Non tanto perché ci potremmo tutti cadere, ma perché non nasce nel vuoto, né è affare esclusivo del singolo violentatore, ma avviene in una comunità e in una cultura dell’abuso e della sua copertura che tutti abbiamo contribuito e contribuiamo a creare. In quella storia siamo dentro tutti. Nessuno come la vittima (e in particolare la vittima donna) te lo fa capire, e ti fa comprendere lo spettro così ampio e articolato degli abusi: di potere, di coscienza, dei sentimenti…, ma anche del tuo ministero, del tuo ruolo, persino di Dio puoi abusare… E ti fa sentire tutta la vergogna per una Chiesa (che speriamo non esista più) per la quale era più importante proteggere la buona fama di sé e dei suoi membri, che non accogliere il dolore e cercare di sanare la ferita della vittima; e ti fa accettare l’umiliazione di fronte all’opinione pubblica, per aver tradito la fiducia di tanti, piccoli e grandi; e ti fa chieder perdono alla vittima, per il danno non solo psicologico, ma pure spirituale, perché l’abuso perpetrato dall’uomo-di-Dio distrugge l’immagine divina nella vittima, la deforma, come se Dio fosse stato in qualche modo complice di quel gesto (e di chi lo copre).

Terribile, in tal senso, pensare che la grande maggioranza dei preti abusatori non abbia mai chiesto perdono a nessuno, non abbia mai pianto una lacrima per la disperazione generata!

Abbiamo atteso questo incontro con una certa paura: della stampa, dell’opinione pubblica, della brutta figura dinanzi al mondo, delle stesse vittime. E ora stiamo scoprendo che proprio grazie al coraggio del loro grido di dolore, se diviene anche il nostro dolore, può iniziare qualcosa di nuovo e impensato: una generale conversione di vita, nella comprensione che la mediocrità (che è all’inizio d’ogni scandalo) è già scandalo, e va combattuta come perversione della nostra identità. Per questo tale dramma può diventare grazia, è grazia per tutta la chiesa, momento provvidenziale per avere sempre più un cuore di pastori. È l’ora di Dio!
Grazie alle vittime e al loro magistero!
Per questo le dobbiamo continuare ad ascoltare, anche quando insistono a contestarci e a chiedere misure concrete di cambiamento: la loro rabbia è l’ira di Dio (Papa Francesco). Non accoglierle sarebbe come un nuovo abuso.

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