di Bruno Desidera

Una doppia tenaglia. È quella che vive in questi giorni l’Argentina, che vive con il fiato sospeso l’aumento dei casi di contagio di Covid-19, soprattutto nella grande area metropolitana di Buenos Aires, proprio mentre si prolungano oltre ogni ultimatum le trattative per evitare il nono default economico del Paese. Se quest’ultima ipotesi si verificasse, al contagio del virus, con il suo carico di enormi problematiche sociali, si aggiungerebbe in tutto il Sudamerica il contagio economico conseguenza del default.

Una prospettiva agghiacciante, alla quale un po’ tutti gli attori si ostinano a non credere, dato che

il Governo e i creditori continuano a trattare, nonostante le agenzie di rating abbiano già definito tecnicamente l’Argentina in fallimento,

dopo la scadenza, la scorsa settimana, di quella che sembrava essere l’ultima data utile per trovare un accordo. La proposta dell’Argentina di sospensione dei pagamenti per tre anni e di ridefinizione degli interessi non è stata al momento accettata dai creditori, tra i quali fa la parte del leone il Fondo monetario internazionale. Ed è dell’ultimo fine settimana la notizia che i maggiori investitori privati hanno attivato assicurazioni per un miliardo e mezzo di dollari, come conseguenza dell’insolvenza dello Stato argentino. Il Governo del peronista Alberto Fernández si è però dato ulteriore tempo fino al 12 giugno e non può far pesare un’eventuale intesa su un Paese in profonda crisi economica e sociale, fermo da oltre due mesi per una dura quarantena.

Tra i Paesi latinoamericani, infatti, quello che ha varato i provvedimenti più duri per fronteggiare il Covid-19 è proprio l’Argentina. Con buoni risultati, in termini di contenimento.

Ma se nella periferia del Paese la vita sta tornando relativamente alla normalità, nell’area di Buenos Aires i contagi hanno ripreso a salire

e sono entrati anche nelle “villas”, i quartieri poveri dell’immensa metropoli.

Un’altra economia. Di questa intricata situazione il Sir ha parlato anzitutto con mons. Gustavo Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires. “Vescovo villero”, lo potremmo definire. Anch’egli, infatti, è stato un cura villero, un prete a sevizio delle villas, fino alla nomina vescovile. Attualmente, mons. Carrara è vicario per la Pastorale delle villas dell’arcidiocesi, il servizio cui tanto teneva l’allora arcivescovo Jorge Mario Bergoglio. E nel raccontarci di cosa sta accadendo nei quartieri più poveri, non rinuncia a dire la sua sulle tematiche macro-economiche, chiedendo a tutti il coraggio di voltare pagina.

“Quanto sta accadendo con la pandemia ci mette a nudo, svela i limiti del nostro modello.

Più volte il Papa ci ha ricordato il valore della fraternità all’interno dell’unica famiglia umana – afferma -. Siamo interconnessi, e la pandemia ci spinge a organizzare il mondo in altro modo. E la questione del default ci fa interrogare su come vogliamo organizzare il sistema finanziario mondiale.

Cosa vogliamo mettere al centro? La finanza, i bond, le speculazioni, o la dignità della persona umana?

Tutti hanno diritto di vivere con dignità. Il Papa ha parlato delle ‘tre T’, tierra, techo y trabajo (terra, casa e lavoro). Sono diritti sacri, e non mi pare si chieda molto più di questo!”.

Invece, “l’Argentina con le sue risorse alimentari dà da mangiare a 400 milioni di persone, ma non riesce a evitare che milioni di suoi cittadini siano senza pane, che esistano bambini senza acqua potabile”.

Il coronavirus nelle “villas”. Ed è quello che accade nelle villas, ancora di più in questi giorni, mentre si sta entrando nella stagione invernale.

Se in Argentina i casi di contagio sono ormai quasi 20mila (18.319 al 2 giugno, con 569 morti), circa 15mila sono i contagi nell’area della capitale e circa settemila quelli nei quartieri poveri.

“Sì, ormai il virus sta dilagando in periferia, per esempio nella Villa 31 (dove i positivi sono oltre 2mila con una decina di morti, ed è stato contagiato, seppure in modo lieve, anche il parroco di Cristo Obrero, padre Guillermo Torre,  ndr), a Bajo Flores, nella Villa 1-11-14, o a Villa Azul”. Ed è grande la preoccupazione per il possibile impatto del contagio nelle oltre 4mila villas del Paese, la maggior parte delle quali nell’aerea metropolitana di Buenos Aires. Riprende mons. Carrara:

“In molti casi qui non c’è acqua potabile, come si fa a spiegare ai bambini che si devono lavare le mani?

Che mondo stiamo preparando ai nostri figli, costretti a vivere in luoghi così sfortunati? Abbiamo poi il problema dei lavoratori precari, piccoli commercianti, coloro che lavorano sulla strada. E quello degli anziani, le persone più a rischio”. In questo scenario, proprio dalle comunità dei quartieri popolari e dai curas villeros sono arrivati tanti segni di condivisione e solidarietà. Si pensi ai ricoveri allestiti per gli anziani, che non potevano continuare a stare in abitazioni affollate e fatiscenti: “Sono state fatte delle ricognizioni, siamo andati a cercare gli anziani nelle loro case, grazie a molti giovani volontari. Ma ad ammalarsi, spesso, sono anche i giovani, o persone di mezza età”. E il vescovo ausiliare, poi, cita i programmi di assistenza sanitaria in luoghi nei quali i poveri non hanno accesso al sistema sanitario, o alla distribuzione di generi alimentari.

Sul debito cauto ottimismo per un accordo. Il disagio sempre più forte viene confermato al Sir dal professor Eduardo Donza, economista dell’Università Cattolica Argentina, che fa parte del gruppo di ricercatori dell’Osservatorio del Disagio sociale, promosso dalla stessa Università: “Nello studio più recente, dedicato alla ‘Grande Buenos Aires’, abbiamo riscontrato che

la metà delle famiglie sperimenta un calo significativo delle entrate, una su quattro non ne ha proprio, poiché vivevano di ‘changas’, di lavori alla giornata.

È completamente al palo il 45% dei piccoli imprenditori e commercianti. Ma i problemi esistono anche per quel 35% di lavoratori stabili e in regola. Il calo complessivo della produzione supera il 50% e ci sono ripercussioni sulle imposte incassate dagli Enti pubblici. Solo a Buenos Aires, calano del 40%. Del resto, abbiamo superato i 70 giorni di quarantena, e non ci sono prospettive a breve termine, visto che i contagi sono in crescita”.

Proprio per questo il dibattito sul default, rispetto ai problemi del “Paese reale”, appare paradossale, eppure estremamente concreto.

“Le trattative tra il Governo e i debitori proseguono – afferma ancora Donza -, l’impressione è che un accordo sia vicino e io sono convinto che il Governo lo voglia fortemente. Ma in realtà si sa molto poco, trapelano poche notizie e l’Esecutivo ha tenuto un profilo molto riservato. Certo, la contemporanea pandemia rende tutto molto più complicato”.

Come, dunque, far convivere la profezia di un “sistema economico fondato sulla persona” e le attuali regole? “La questione è vera – ammette l’economista -. Vogliamo, è vero, un’economia più umana, ma dall’altro lato serve tempo. Si può fare un paragone con il default del 2001. All’epoca il sistema dei creditori internazionali era molto più rigido e basato su criteri finanziari. Invece, in questa trattativa si avverte più flessibilità, qualche passo verso un’umanizzazione di questo sistema è stato fatto”.

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