La mattina inoltrata del giorno di Natale si svegliarono insonnoliti, groppa a groppa, dentro la stalla di Betlemme ormai vuota. L’asino e il bue ci misero un poco a rendersi conto che quella mattina nessuno era venuto all’alba per condurli al lavoro.

Quella si presentava come una strana e davvero imprevista giornata di festa. D’altra parte anche la notte era stata strana e così piena di imprevisti che i due non avevano neppure avuto modo di presentarsi.

«Piacere – disse il primo –, sono l’asino di Nazareth e lavoro per Giuseppe il falegname». «Io – rispose l’altro – sono il bue di Betlemme e tiro il carro del padrone di questa stalla, cha trasporta le cose dai campi a Gerusalemme». Mentre parlava sentì una fitta di dolore al groppone e si ricordò perché la notte prima aveva maledetto quel falegname, quando lo aveva svegliato e spinto in fondo alla stalla, per fare un po’ di posto a sua moglie che stava per partorire. «Ieri – cominciò dando voce ai suoi pensieri – ho tirato un carro pesantissimo, pieno di pietre per un cantiere di Gerusalemme e tornato alla stalla avevo un solo pensiero fisso, lì tra le corna: dormire in pace, dopo un lavoro così pesante che avrebbe abbattuto anche un bue».

Anche l’asinello che aveva vissuto una giornata durissima rispose: «Dopo giorni di viaggio da Nazareth a Betlemme, ci mancava solo quell’avanti ed indietro per le viuzze di questo buco sperduto di paesino alla ricerca di un alloggio, senza trovarlo, per poi finire stipato in questa piccola stalla, groppa a groppa con un bue tutto sudato, che non profumava certo di viole». Ma subito aggiunse: «Scusami…», mentre i grandi occhi del bue lo fissavano offesi, per la storia del profumo di viole. «Il fatto è che sono un asino e le asinerie mi vengono in bocca con grande facilità». Era un asino simpatico ed ambedue si fecero una sonora risata, che la gente avrebbe scambiato per un raglio e un muggito, ma era una risata. Perché quei due erano, nel fondo del cuore, davvero felici di tutto quello che avevano vissuto.
La luce, il primo vagito del Bambino, poi il canto dal cielo che sembrava di angeli, la venuta dei pastori e poi, chiamata da loro, della gente semplice di Betlemme. Così: chi di giorno aveva chiuso la porta in faccia a Maria e Giuseppe, in quella notte luminosa, vergognandosi un poco, aveva aperto le braccia e portato un dono. Chi un pane, chi un panno morbido per avvolgere il Bambino. Addirittura c’era anche chi aveva dato un po’ di fieno alle due bestie e aveva riempito di acqua pulita il secchio della stalla.

Poi se ne erano andati portando con loro Maria, Giuseppe ed il Bambino a cui, con la buona volontà di tutti, avevano trovato una piccolo alloggio. Sembrava che quella nascita avesse reso tutti più buoni.

«Forse sarà che sono un somaro – disse l’asinello di Nazareth –, ma la gente non è cattiva. Solo che quando corrono come matti da un posto all’altro, o vivono sempre curvi sotto il peso della vita, finiscono come noi: sbattono schiena contro schiena ma non si guardano negli occhi. È per questo che non vedono la fatica e la sofferenza dell’altro». Ed il bue, scuotendo la testa, pensò che in tutto il mondo proprio a lui doveva capitare come compagno di stalla un asino filosofo… ma tutto sommato poteva andargli peggio.

Buon Natale!

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