La fatica più grande che incontro nei colloqui con le persone, è la difficoltà diffusa a rendersi conto di quanto la realtà sia cambiata attorno a noi. Un mio difetto genetico che mi spinge sempre a cercare di vedere il dopodomani, piuttosto che l’oggi, potrebbe condizionare il mio sguardo, ma dato che siamo in vacanza questo articolo leggetelo senza troppi pensieri: come una esercitazione di fantascienza.

Dopodomani le ideologie saranno definitivamente finite. L’ideologia è una lettura chiara e semplice che definisce: chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Già oggi chi ha la percezione della complessità di un intero globo fortemente interconnesso, sa che le letture chiare e semplici dei fenomeni umani sono sempre più difficili da realizzare. Alcuni si erano illusi che la scienza ci sarebbe riuscita, ma dopo due anni di proclami di virologi e comitati tecnico scientifici, che dicono tutto ed il suo contrario ogni sette giorni, qualche dubbio sul fatto che la scienza ci salverà si sta diffondendo nei cuori della gente. La verità sull’uomo e la vita va cercata dando ascolto non solo alle analisi di laboratorio o alle teorie dell’ultimo filosofo alla moda, ma anche alla vita, alla esperienza saggia di chi ha vissuto ed amato, e soprattutto ascoltando quello che Dio cerca di dirci dal giorno della creazione. A questa attenzione alla vita, alla sapienza ed a Dio molti stanno tornando tra quanti finora erano troppo superbi e sicuri di sé per credere. Ma come Chiesa non siamo per nulla attrezzati ad intercettare la loro sete di vero e di bene.

È infatti finito il modello del villaggio. Quello stile di vita costruito attorno a tre persone rassicuranti: il sindaco, il parroco ed il maresciallo, che davano risposte chiare sul lavoro, sulla vita e sulla legge. Oggi tutti viviamo in territori più ampi e vaghi di un villaggio, percorsi ogni giorno, spesso di corsa e senza mai guardare il panorama. Una Chiesa che ancora pensi di radunare la gente attorno al campanile della parrocchia, dove un parroco aiuta a sentirsi una grande famiglia felice, fa un bel sogno che rischia di restare tale.

Dobbiamo trovare il modo di incontrare la gente in questi spazi più ampi, percorrere pezzi di strada accanto a loro per condividere le ragioni della nostra speranza. Forse alla Chiesa di oggi sarà più utile acquistare dei camper che ricostruire le grandi basiliche. Sarà più urgente formare dei gruppi di preti che sappiano fare la staffetta, passandosi il testimone mentre camminano a fianco dell’umanità, che dei parroci solitari seduti per tanti anni sulla porta della chiesa ad aspettare che chi passa di lì entri a vedere.

I nostri giovani sono in fuga. Nei nostri territori un trentenne su quattro – tenendo conto che i trentenni sono sempre meno – finita l’università va a lavorare al nord o all’estero. Il benessere delle famiglie e le molte università del territorio hanno permesso di formare bene i nostri giovani. Ma la fragilità delle stesse famiglie spesso divise, li hanno privati di un legame stabile alla casa ed alla terra. Molti di loro pensano: «Perché restare a giocarsi qui le poche possibilità, quando altrove tante cose mi attirano?». E ognuno che parte è un motivo in meno per altri di restare ed uno in più per andarsene. Come Chiesa li formiamo da bambini, poi li intravediamo da adolescenti, li incontriamo ogni tanto da giovani e li perdiamo di vista quando diventano adulti. Se poi se ne vanno altrove, il fatto è ancora più irreversibile.

Tutti diranno che vedere la malattia è facile, trovare la cura lo è molto meno. Io penso che illudersi di essere sani è più pericoloso che vedere chiaramente tutti i sintomi. Poi bisogna con grande umiltà smettere di dare lezioni su quello che si dovrebbe fare, partendo dall’idea che basterebbe rifare ciò che c’era prima.

Ogni volta che vado in una parrocchia mi raccontano la vita di 25 anni fa e mi dicono che vogliono un parroco che la rifaccia uguale, semplicemente ripetendo le cose del vecchio parroco, che di solito ci guarda dal cielo e sorride dei nostri sogni. Spesso debbo dire che non ho un parroco disponibile, ma in realtà credo sempre di meno che basti solo ripetere il passato. Ancora meno credo alle ricette degli anni Settanta: che volevano trasformare le chiese in case del popolo, gli oratori in discoteche parrocchiali, e le Caritas in centri socioassistenziali identici a quelli del Comune.

Forse dobbiamo ripensare di più a quello che abbiamo da dare al mondo, quello che solo noi possiamo dare e che ci caratterizza. Una Parola di Dio, che prima di tutto dovrebbe illuminare la nostra vita. Una testimonianza di bene, che dovrebbe iniziare dallo smettere di criticarci tra di noi. Una speranza che irradiamo perché brilla nei nostri cuori e si rafforza quando preghiamo insieme.

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