«Turn off your mind, relax and float down stream…» Rilassati, e abbandonati alla corrente… Sei in macchina, destinazione aeroporto di Bologna. A tenerti compagnia alla radio è la voce di Junior Parker, bluesman degli anni ’60. Sta interpretando un capolavoro dei Beatles, «Tomorrow never knows». Voce profonda, ipnotica come un battito cardiaco. E’ strano, ma alle tre di notte l’unico veicolo che incontri prima di arrivare al casello è una bicicletta: un ragazzo di colore sta pedalando in salita, lontano da tutto, circondato dal buio. E’ un vagabondaggio notturno il suo, o una giornata di lavoro che sta per iniziare?

L’autostrada è quasi deserta: incroci un TIR con la cabina contornata di luci, una bisarca, pochissime vetture. Eppure luglio è il mese dedicato tradizionalmente alle partenze. Che sia cambiato qualcosa con la pandemia? Abbiamo modificato i nostri comportamenti, le nostre destinazioni? Forse la crisi che ci ha colpito ha contribuito alla nascita di una nuova consapevolezza: un turismo meno attratto da soggiorni mordi e fuggi in località affollate, più educato e curioso, in una parola responsabile?

Arrivi all’aeroporto mentre sta albeggiando. Il terminal è già pieno di passeggeri e accompagnatori, ma è talmente grande che non provi nessun senso di soffocamento. Somiglia ad una cattedrale: sotto le volte attraversate dai condotti di aerazione e da altre tubature a vista, sostano bagagli, sogni, transazioni finanziarie, attese, stanchezza. Un uomo dorme rannicchiato sui sedili in attesa del check-in, con il capo appoggiato su un borsone. Ovunque campeggia il cartello “Mantenete le distanze”. Qualcuno si guarda intorno con diffidenza.

Di tutte le nuove regole che avremmo dovuto rispettare, quella del distanziamento è l’unica che abbiamo interiorizzato, se è vero, come dicono gli esperti, che le persone stanno perdendo dimestichezza con lo stare insieme, e la paura di entrare in contatto con gli altri nasce anche dalla incapacità di interpretarne atteggiamenti e desideri.

In autogrill, dove ti fermi sulla via del ritorno, il clima è completamente diverso. Caotico, sciatto, a tratti conflittuale, come tutti gli ambienti troppo affollati. Una sorta di valvola di sfogo, necessaria dopo avere viaggiato per lungo tempo rinchiusi nelle proprie vetture, in uno stato che il neuroscienziato Shane O’Mara ha definito di “passività peculiare”: isolati dietro ad un vetro, seduti eppure lanciati a velocità folle, con la possibilità non troppo remota di incappare in qualche incidente. In fondo è così che siamo abituati a concepire la nostra vita. Sempre confinata in un contenitore, sia esso mobile come una vettura, o statico come un edificio. Neanche in vacanza riusciamo a scrollarci di dosso questo destino da carcerati. In fondo, se continuassimo a viaggiare isolati, ciascuno dentro il proprio guscio, eviteremmo ogni sorta di contagio, senza abdicare al ruolo di fedeli consumatori.

O forse l’unica forma di liberazione potrebbe essere quella di viaggiare zaino in spalla. Come negli anni ’60. Lentamente, in pace con se stessi. Senza nessun parabrezza. Liberi di vedere, annusare, toccare, pensare. Liberi di percorrere sentieri da dissidenti, e di addormentarsi con i piedi stanchi. Oppure salire in bicicletta e pedalare di notte, lungo le strade di un paese straniero, cercando, con la luce fioca di una coscienza tremante, i segni di una nuova umanità.

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