di don Sergio Salvucci
È dal 1991 che la diocesi di Macerata sta vivendo una collaborazione con la diocesi argentina di Comodoro Rivadavia. Si iniziò con don Frediano Salvucci e don Alberico Capitani nella città di Gobernador Costa, una zona vicina alla Cordigliera ed estesa dal centro della provincia del Chubut (Paso de Indios) fino al confine col Cile (Rio Pico e la Aldea Las Pampas). Nel 1992 don Frediano ritornò in Italia e io lo sostituii, don Alberico rimase lì fino al 2001 e io fino al 2003. Al nostro rientro nessuno ci rimpiazzò e questa prima collaborazione cessò.
Nel 2009 don Alberico chiese al vescovo di Macerata del tempo, monsignor Claudio Giuliodori, di poter ritornare nella diocesi di Comodoro Rivadavia, che nel frattempo era stata divisa in due. Il vescovo Giuliodori acconsentì e don Alberico ripartì con destinazione la città di Puerto Madryn in Patagonia, questa volta sul mare. Lo accompagnò don Jorge Trinidad. Nel 2013 don Jorge rientrò in Italia, sostituito da don Andre De Oliveira; nel 2015 mi unii anch’io.
La nostra missione svolge una pastorale simile a quella vissuta in Italia, con messe, battesimi, comunioni, cresime, matrimoni, benedizione dei defunti, catechismo, Caritas, cerimonie varie… La differenza sono i numeri: qui nella missione le famiglie sono tantissime. Puerto Madryn ha 120.000 abitanti circa, suddivisi in quattro parrocchie. Io e don Alberico siamo nella parrocchia di San Cayetano, mentre don Andre è nella parrocchia Cristo Risuscitato (in totale mezza città o un poco più, dato che sono le parrocchie della periferia).
Essere missionario significa svolgere una presenza cristiana di animazione là dove la fede non è molto conosciuta. L’animazione si fa nelle attività normali, come quelle che si svolgono in Italia, cercando di guardare avanti e di rispondere ai problemi concreti di oggi. Non possiamo rispondere a tutte le richieste che ci raggiungono, però possiamo vedere le conseguenze se non si risponde in tempo alle inquietudini.
È molto difficile parlare di missione a chi non ha mai messo piede in queste latitudini e, in qualche caso, pur essendo venuto, ha visto la realtà con un occhio occidentale non riuscendo a scendere appieno nella realtà.
La pandemia ha accentuato questa difficoltà. Abbiamo dovuto fare il catechismo in forma virtuale, però nelle nostre periferie non sempre arriva il segnale Internet, non tutti hanno un cellulare in grado di gestire i compiti che gli si inviano (questo succede anche per la scuola). Alle messe, quando si sono riaperte le chiese, abbiamo potuto occupare solo il 30% dei posti.
I nostri malati non sempre possono essere aiutati: non ci sono sufficienti strutture. La società non si interessa dei problemi, si interessa molto di più degli interessi economici e politici. Noi facciamo quello che si può. Non possiamo neanche sostituirci alle mancanze, debbono riuscire da soli a venirne fuori; possiamo dare una “spintarella”, ma non più di questo, per non abituarli a che altri tolgano dal fuoco le castagne. La realtà è dura, però in confronto con altre realtà di missione, come in Africa o Asia, il contorno è principalmente cristiano, anche se sta andando alla deriva con la presenza di sette varie. A presto, quando potremo rientrare in Italia senza tanti problemi.