Il cardinale Mario Grech, maltese, segretario generale del Sinodo dei vescovi, avrebbe dovuto essere a Macerata il 19 gennaio 2022, ma l’andamento della pandemia ha consigliato di sospendere gli appuntamenti in presenza, per cui l’incontro è rimandato a data da destinarsi. Il prelato aveva però già accettato, a introduzione della sua visita, di rispondere ad alcune domande sul cammino sinodale che coinvolge tutta la Chiesa e, in questa prima fase, le diocesi, la nostra inclusa.

Eminenza, questo Sinodo è nato con l’intenzione di trasformarsi da evento della Chiesa universale a processo che coinvolge in tempi contingentati le Chiese locali di tutto il mondo. A cammino avviato da qualche mese, le sembra che questa prospettiva sia stata compresa?
Nonostante il processo sinodale sia stato avviato solo da pochi mesi, e dunque sia troppo presto per esprimere valutazioni circostanziate, mi sembra di constatare un buon livello di entusiasmo e di interesse all’interno di molte Chiese locali. È la percezione che mi arriva dagli incontri che ho svolto in vari luoghi del mondo, dai meeting telematici organizzati dalla Segreteria del Sinodo con i presidenti delle Conferenze episcopali e con i responsabili del processo sinodale a livello nazionale o diocesano, dalle molte lettere che ci arrivano di continuo da ogni dove. Ovviamente non mancano le difficoltà e le resistenze, che sono in parte comprensibili e prevedibili, ma il processo sinodale si è aperto sotto buoni auspici, e il nostro compito sarà quello di non deludere le legittime attese che esso sta già suscitando in tante comunità e in tanti cristiani.

Perché il Papa l’ha voluto in modo così determinato?
Il Papa ha fatto della sinodalità una delle idee chiave del suo pontificato, riprendendo e sviluppando con diversa terminologia un’istanza fondamentale del Concilio Vaticano II, presente in particolare nel II capitolo della Lumen Gentium, dedicato al Popolo di Dio. Il desiderio di favorire il protagonismo di tutti i battezzati nella missione della Chiesa nasce, a mio avviso, da una duplice intuizione: la prima è squisitamente teologica, e riguarda la dignità sacramentale di ogni cristiano, che nel battesimo è stato costituito soggetto – e non oggetto – dell’azione ecclesiale, mediante il conferimento del sacerdozio regale, che è una forma reale di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo, complementare a quella del sacerdozio ministeriale; la seconda è propriamente pastorale, e riguarda la convinzione che l’evangelizzazione del mondo contemporaneo (tema centrale della Evangelii Gaudium) debba comportare un rinnovato impegno di tutti i battezzati, superando uno dei principali ostacoli all’annuncio del Vangelo agli uomini d’oggi, che è il clericalismo.

Lei ne ha parlato come di un “Sinodo sulla sinodalità”: ci spiega cosa intende?
Il “Sinodo sulla sinodalità” non è un bel gioco di parole, ma una formula che chiede di essere attentamente spiegata, onde evitare facili fraintendimenti. Synodus è parola antichissima, radicata nella Sacra Scrittura e nell’esperienza della Chiesa dei Padri, che indica in senso generale ogni raduno in cui i membri della Chiesa, ai vari livelli, si incontrano per discernere e decidere insieme ciò che attiene al bene della comunità. Nel nostro caso, si intende con “Sinodo” l’organismo che san Paolo VI ha istituito nel 1965 con il nome di Sinodo dei vescovi e che papa Francesco ha innovato nel 2018 con la costituzione apostolica Episcopalis communio, trasformando il Sinodo da evento in processo in cui l’intero Popolo di Dio è in vario modo coinvolto, ovviamente insieme ai vescovi e sotto la loro indispensabile guida. Sinodalità, invece, è parola più recente, evidentemente derivata dal termine Sinodo: essa non indica tanto un “evento” ecclesiale, quanto uno “stile” di Chiesa, lo stile di una Chiesa più capace – come recita il sottotitolo di questo Sinodo – di comunione, di partecipazione e di missione. È su questo, dunque, che il “Sinodo sulla sinodalità” è chiamato a interrogarsi: su come accrescere la comunione tra i membri della Chiesa, incrementare le forme della partecipazione alla vita ecclesiale, rendere più efficace e credibile l’impegno missionario.

Nel parlare delle prospettive di questo Sinodo lei è arrivato a dire: «Ottenere dei risultati senza maturare uno stile sinodale consegnerebbe la Chiesa a una delusione che comprometterebbe il futuro della sinodalità e della stessa Chiesa… Ciò che conta è maturare una vera mentalità sinodale; comprendere che davvero “la Chiesa è costitutivamente sinodale”». Le sembra che questa consapevolezza sia stata acquisita?
È quanto stavo appunto accennando. In questo Sinodo, in un certo senso, il contenuto e il metodo si intrecciano in modo inestricabile: riflettere sulla sinodalità senza maturare uno stile o una mentalità sinodali sarebbe un grave controsenso. Si tratta della mentalità del pensare-insieme, del progettare-insieme e, a determinate condizioni, del deliberare-insieme. Non è una mentalità “contro”, nella quale il ruolo dei ministri ordinati viene minacciato dalle “rivendicazioni” dei fedeli, ma una mentalità “con”, in cui pastori e laici imparano – come dice appunto la parola Syn-hodos – a “camminare insieme”, nella diversità dei ministeri e dei carismi suscitati dallo Spirito Santo. Questa consapevolezza non è ancora sufficientemente acquisita in larghe fasce del Popolo di Dio, sia tra i pastori sia tra i laici, e per questo la “sfida” di questo Sinodo mi sembra estremamente attuale.

Il cammino sinodale deve ascoltare il sensus fidei, ma questo da chi è espresso oggi, con comunità a grande prevalenza di anziani, oltretutto distanziate dal Covid?
L’ascolto del sensus fidei è centrale in ogni processo sinodale, ma bisogna fare attenzione a non confondere il senso soprannaturale della fede, che lo Spirito Santo accorda alla totalità dei battezzati, con una qualche forma di opinione pubblica nella Chiesa o con l’orientamento della maggioranza, che sarebbe peraltro difficilmente determinabile. L’importante è che, all’interno delle Chiese locali, si faccia lo sforzo di ascoltare il più possibile tutti: non soltanto i soliti noti, che spesso sono anziani, ma anche coloro che sfuggono ai nostri consueti circuiti ecclesiali, soprattutto i giovani, che molto hanno da dire e che devono essere messi in condizione di farlo. La raccolta di queste voci non è ancora direttamente il sensus fidei, ma è il presupposto per quel discernimento ecclesiale – compiuto a diversi livelli nel corso del processo sinodale – che permette di riconoscere nelle voci dei fedeli la voce dello Spirito.

«Ciò che riguarda la vita della Chiesa – sono parole sue – deve passare per il canale delle Chiese particolari», quindi i contributi di tutte le realtà, come movimenti, associazioni, gruppi… devono confluire nel cammino delle diocesi: sta avvenendo?
La rinnovata visione di Chiesa – che questo pontificato e questo processo sinodale intendono promuovere per far progredire la recezione del Concilio Vaticano II – non può e non vuole astrarre dalle Chiese locali, perché è in ciascuna di esse che si realizza l’unica Chiesa di Cristo, sotto la guida del vescovo, vicarius Christi per il gregge affidato alle sue cure pastorali. Questo significa anche aiutare le diverse realtà ecclesiali oggi esistenti – le quali possono offrire un prezioso contributo al cammino del Sinodo – a non bypassare le Chiese locali e a inserirsi vitalmente nelle iniziative diocesane in corso, in vista di un reciproco arricchimento.

Ci sono esperienze in cui il ponte lanciato verso i “lontani”, le persone che hanno perso familiarità con la Chiesa o che le sono ostili, i giovani ha dato risultati già apprezzabili?
Ci sono tentativi, in varie Chiese locali, per cercare di coinvolgere nel processo sinodale i cosiddetti “lontani”: ad esempio, incontri aperti alla società civile, iniziative che interessano scuole e istituzioni universitarie, proposte per i gruppi di immigrati o eventi che coinvolgono i poveri e gli emarginati. È troppo presto per conoscere i frutti di questi tentativi, ma forse, prima ancora di poter “quantificare” i risultati di tali iniziative, sono un buon risultato le iniziative in sé, vale a dire lo sforzo di essere Chiesa “estroversa”, aperta sul mondo e non ripiegata su se stessa.

Il linguaggio col quale si sta promuovendo il cammino sinodale è, dal suo punto di vista, adeguato per intercettare la vita dei nostri contemporanei?
La mediazione linguistica è tanto fondamentale quanto faticosa. Nel processo sinodale sono in ballo questioni complesse – che riguardano la teologia, ma anche il diritto canonico – e rinunciare ad affrontarle, con l’aiuto degli specialisti del settore, sarebbe un errore. Al tempo stesso, si deve cercare un linguaggio più semplice e “inclusivo” per coinvolgere tutti nel cammino, secondo le forme concretamente possibili. Un simile sforzo è stato già compiuto nell’elaborazione del Documento Preparatorio e dell’annesso Vademecum, che infatti stanno ricevendo una buona accoglienza. Anche in seguito, quando nella fase continentale e in quella universale si dovranno forse affrontare questioni teologiche più specifiche, bisognerà fare in modo che il linguaggio non diventi astruso e non appaia lontano dalla vita concreta dei fedeli, dato che il cammino riguarda tutti, nessuno escluso.

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