di Laura Crucianelli
Più passano gli anni, più mi rendo conto che desidero per la mia vita non le piccole cose, ma un lusso sfrenato: il tempo. Non intendo solo il tempo libero, non determinato da impegni prefissati, ma il tempo per vivere appieno il quotidiano: il lavoro, gli affetti, ma anche tutto quanto non può essere svolto se non in una solitudine apparentemente inoperosa.
Niente di originale: la riflessione sul tempo occupa pagine e pagine della letteratura e della filosofia di ogni epoca, me ne rendo conto; ma confido nell’indulgenza di chi sa che ognuno ha la sua particolare declinazione della realtà cui far fronte e, sommessamente, propongo la mia.
E dunque è di tempo che, qui e ora, ho fame. Nonostante la tecnologia delle comunicazioni – reali e virtuali – ci dia l’illusione di farcelo guadagnare. Ma si tratta, come si sa, di abbreviare le distanze tra una domanda e una risposta, non di una effettiva dilatazione: dal momento in cui uno strumento mi consente di dare una replica immediata, da me si esige l’immediatezza. Tutti abbiamo fatto l’esperienza delle chat scolastiche, chi dalla parte dei genitori, chi da quella degli insegnanti, chi da entrambe. Innumerevoli bip di una connessione senza sosta. Chi resta indietro è perduto. E, dunque, dagli all’affannosa risposta, mentre fai altro, mentre altri ti parlano, mentre il telefono squilla, un bimbo piange, la cena brucia, i nervi saltano.
Il nostro, soprattutto in questi anni sciagurati di pandemia, è un tempo frammentato, bombardato, ossessionato. È il tempo scandito dalle notifiche. Una volta, invece, il tempo lo scandivano, per esempio, le campane. Che avevano una doppia funzione: quella del richiamo alla preghiera comunitaria e, insieme, al raccoglimento personale.
Ecco, quest’anno voglio osare l’impossibile: vorrei il tempo delle campane. Non mi illudo, intendiamoci, che si possa tornare al passato, né è questo il mio auspicio: persino una persona così sprovvista di senso pratico come me capisce che ci sono dei vantaggi indubitabili nell’andare a Milano in tre ore di treno anziché in giorni e giorni di calesse. Soprattutto se si tratta di soccorrere un ammalato, salvare una vita.
Il fatto è che, mi pare, siamo diventati strumento dei nostri strumenti: quello che dovrebbe essere un mezzo per migliorare le condizioni materiali finisce per impadronirsi di noi e allora diventiamo quelli che devono fare delle cose, tante, di corsa, perché la tecnologia ci consente di essere qui e altrove, tutto in centrifuga. Nobili e necessarie attività, magari, ma che non ci definiscono, non pienamente, almeno. Ci manca il tempo per essere. E allora ritrovo il richiamo di Seneca: recede in te ispum, ritirati in te stesso. Non una fuga dal mondo, ma un necessario, salutare raccoglimento che mi ricordi il senso, l’orizzonte del mio agire. Che non vorrei più sentire come imposto da necessità esterne, ma scelto, attimo per attimo, per vivere quella parte di vita, piccola ma insostituibile, che mi è assegnata. Vorrei poter dire, con Sant’Agostino: in te, animo mio, misuro le stagioni.