Sono passati tanti anni, ma le ferite spesso sono ancora aperte, come quelle della Shoah, con la differenza che vi è stato per troppo tempo un lungo e colpevole silenzio sui fatti storici del confine orientale italiano. Negare la storia, negare quello che è stato vuol dire lasciare aperte le porte alle divisioni e all’odio piuttosto che alla costruzione di una convivenza fondata sul rispetto e la collaborazione.

Dal 2005 gli italiani celebrano il Giorno del Ricordo, in memoria dei quasi ventimila italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) dalle milizie della Jugoslavia di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale. Si ricorda anche l’esodo degli italiani dalle ex province della Venezia Giulia, dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Le violenze nascono sempre da altre violenze e la guerra con il mito della razza creò le condizioni per quello che accadde nelle terre di confine, come emerge dalle ricerche degli storici. Dopo lo scioglimento del Partito fascista e la firma dell’armistizio l’8 settembre 1943 esplose la prima ondata di violenza in Istria e in Dalmazia. I partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono dei fascisti che, nell’intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza e violenza, imponendo un’italianizzazione forzata e reprimendo e opprimendo le popolazioni slave locali.

Tutti gli italiani fascisti e non comunisti vennero così considerati nemici del popolo. Le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia “Tito”, che avevano sconfitto i famigerati “ustascia” cioè i fascisti croati agli ordini del dittatore Ante Pavelic, che si erano macchiati di crimini orrendi, a loro volta commisero crimini orrendi con le Foibe.

Nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo occupò l’Istria (fino ad allora territorio italiano, e dal ’43 della Repubblica Sociale Italiana) e puntò verso Trieste, per riconquistare i territori che, alla fine della Prima guerra mondiale, erano stati negati alla Jugoslavia. Gli jugoslavi si impadronirono di Fiume e di tutta l’Istria interna, dando subito inizio a feroci esecuzioni contro gli italiani. Gli alleati impedirono a Tito di occupare Trieste. La rabbia degli uomini di Tito per non essere riusciti a prendere Trieste si scatenò contro persone inermi. Tra il maggio e il giugno del 1945 migliaia di italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia furono obbligati a lasciare la loro terra. Altri furono uccisi, gettati nelle foibe o deportati nei campi di concentramento sloveni e croati. Il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito nel periodo tra il 1943 e il 1947 furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila.

Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l’un l’altro con un lungo filo di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell’abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili. Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.

Il dramma delle terre italiane dell’Est si concluse solo con la firma del trattato di pace di Parigi il 10 febbraio 1947. Alla fine, alla conferenza di Parigi venne deciso che per il confine si sarebbe seguita la linea francese: l’Italia consegnò alla Jugoslavia numerose città e borghi a maggioranza italiana, rinunciando per sempre a Zara, alla Dalmazia, alle isole del Quartaro, a Fiume, all’Istria e a parte della provincia di Gorizia. La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada e negli Stati Uniti. Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia.

Per questo è stato scelto il 10 febbraio per il Giorno del Ricordo: non una scelta casuale. Così come è di grande valore simbolico di avere scelto Gorizia e Nova Gorica congiuntamente come Capitale della cultura europea 2025. Scelte che «dimostrano – disse il presidente Sassoli – una volta di più come la integrazione di italiani, sloveni e croati nell’Unione Europea abbia aperto alle nostre nazioni orizzonti di solidarietà, amicizia, collaborazione e sviluppo. Il passato non si cancella. Ma è doveroso assicurare ai giovani di queste terre il diritto a un avvenire comune di pace e di prosperità». Eppure oggi ci troviamo ancora a parlare di tensioni ai confini e di esodo come in Ucraina e siamo ancora a parlare di “razza”. Conoscere vuol dire comprendere il perché è successo, i fatti accaduti e le conseguenze, e dagli errori del passato si può uscire insieme solo se l’Europa saprà coniugare le esigenze delle minoranze nel rispetto e nella collaborazione tra popoli, mai nella divisione. Le parole di David Sassoli che pronunciò per la Giornata del ricordo indicano la strada.

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