di Laura Crucianelli

Lo ammetto, ero tra i malpensanti: credevo che la pandemia avrebbe fornito la scusa definitiva per relegare lo scritto di italiano a una scuola ancien régime, vuoi per questi nuovi venti pedagogici della “Transizione ecologica e digitale”, vuoi perché, diciamolo, sulla scuola si tende sempre a risparmiare. Mi sbagliavo. Tornano, come annunciato dalle relative ordinanze, gli scritti all’esame del primo e del secondo ciclo, salutati dal Ministro come riconquistata normalità e deprecati dagli studenti che in questi giorni stanno facendo sentire la loro voce nelle piazze.

Intendiamoci, gli studenti non hanno torto: non c’è niente di veramente “normale” neanche quest’anno: le lezioni in presenza sono a singhiozzo, tra chi è in Dad e chi segue in classe e, soprattutto, gli alunni che a giugno affronteranno l’esame sono quelli che hanno svolto quasi l’intero triennio sotto la pandemia. La preparazione, non nascondiamolo, ne ha risentito.

Eppure per me quella della reintroduzione degli scritti resta una buona notizia. E no, non lo dico da prof di Lettere con gli occhiali sulla punta del naso e il piacere perverso di correggere grafie indecifrabili. Lo dico pensando, questo sì, soprattutto alla prova di Italiano. Oggi tutto si svolge in modo veloce e la comunicazione si adegua: viviamo di frasi accostate una all’altra, in una paratassi che livella i pensieri mettendoli tutti sullo stesso piano. Che bello, l’uguaglianza! Beh, insomma, mica tanto. Non riconoscere le gerarchie e le dipendenze del pensiero ci fa perdere in una giungla di informazioni che arrivano in modo martellante e continuo. La parola scritta, invece, richiede innanzitutto il tempo. Per fermarsi, per riflettere, per chiedersi se un concetto è certo e dunque richiede l’indicativo oppure se possa essere espresso come ipotesi, al congiuntivo. Scrivere significa, prima di tutto, conoscersi, interrogare se stessi, cercare le parole che diano forma a idee che, prima di sostanziarsi in una sintassi, appaiono a noi stessi come nebulose.

Ma il tema di italiano davvero insegna a fare tutto ciò? Certo è uno strumento imperfetto, ma, d’altra parte, quali altre occasioni hanno i ragazzi per esercitare questa competenza che, prima di essere espressiva, è cognitiva e metacognitiva? Adesso, secondo me, non possiamo permetterci di perdere questa occasione. Pertanto direi grazie a chi, quest’anno, forse con qualche ansia in più, affronterà l’esame: sta facendo “ecologia” della parola scritta.

E poi penso anche a quei ragazzi che non hanno la capacità di improvvisarsi istrioni davanti alla commissione, spiazzandola con un eloquio brillante o con collegamenti arditi e originali; penso agli introversi, ai timidi, che, magari, davanti a un foglio si raccontano meglio che di fronte a dieci occhi indagatori, mostrando una logica sferzante o un intuito poetico raffinato. O, semplicemente, ci provano e vada come vada. Resteranno il rito collettivo, il tototitoli, le crisi isteriche, qualcosa che sì, un po’ ha il sapore di “normalità”.

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