«Quando potremo riabbracciarci?». Sto tornando a casa insieme a mio figlio. La cena è andata bene. L’anniversario di un viaggio in India è stato il pretesto per ritrovarmi con Sauro e Rita dopo tanti anni. Ci siamo lasciati da vecchi amici, uscendo dal ristorante singalese nella zona del porto. «Namasté!». «Alla prossima!». E poi, inevitabile, l’imbarazzo al momento del saluto: carezza? Tocco sulle spalle? Un goffo accenno di abbraccio, scrutando le reazioni dell’altro…

«Quando torneremo ad abbracciarci?». Gli interrogativi di un figlio sono sempre in agguato. A volte ci colgono di sorpresa, colpiscono in ripartenza. Altre volte, invece, giocano di anticipo. Esprimono qualcosa che anche tu stai pensando. Un attimo prima, però. «Mi è sempre piaciuto abbracciare le persone, cercarne il contatto; ma ora mi chiedo se sarò ancora in grado di farlo, quando tutto sarà passato. Riusciremo a tornare come prima?». Già. Riusciremo a tornare come prima? Me lo sto chiedendo anche io.

Shamsia Hassani, una artista afghana che espone in tutto il mondo, ed orna di murales visionari i muri diroccati degli edifici di Kabul, ha scritto in un graffito: «L’acqua può ritornare in un fiume arido, ma cosa succede al pesce morto?». Viviamo nel “secolo della solitudine”, afferma l’economista inglese Noreena Hertz nel saggio omonimo. La mancanza di contatto fisico, con tutto il malessere che ne consegue, rappresenta solo uno degli aspetti più evidenti di un fenomeno tentacolare, radicato all’interno di un ecosistema nel quale sembra non trovare ostacoli: ha risvolti pesanti dal punto di vista sanitario (ci si ammala di solitudine nel corpo, non solo nella psiche), sociale e perfino politico; rappresenta una minaccia per una democrazia che voglia essere tollerante ed inclusiva.

Il fenomeno ha origini lontane: la crisi pandemica non ha fatto altro che accentuare un processo iniziato con la svolta neo liberista degli anni 80, quando molti valori della vita sociale – la solidarietà, la comunità, e perfino la gentilezza – sono stati marginalizzati. La solitudine non è solo il disagio che prova chi è povero di compagnie, o di intimità. Non riguarda solo la sfera degli affetti. È anche la frustrazione provata da chi sente di essere abbandonato da parte dei propri concittadini, dai datori e compagni di lavoro, dalle istituzioni. È la percezione di sentirsi politicamente ed economicamente escluso. Un sentimento che genera rabbia, ostilità, e ha una ricaduta pesante anche nelle urne elettorali.Cosa si può fare, allora, affinché le persone si sentano accudite, in un mondo in cui le risorse sono sempre più scarse? Come fare in modo che gruppi sociali già vulnerabili non siano emarginati ancora di più? Insomma: come riunire le persone in un mondo che si sta disgregando?

Il saggio è ricco di esempi virtuosi relativi alla vita in famiglia, al mondo del lavoro, al quartiere nel quale si abita. Possono sintetizzarsi in un unico suggerimento: favorire incontri, micro interazioni, progetti comuni, tra persone di diversa estrazione e cultura. L’esatto contrario degli algoritmi, che propongono sempre pensieri a noi affini, e i diversi solo per consentirci di polemizzare urlando. In fondo – conclude l’autrice – l’antidoto al secolo della solitudine può essere solo l’esserci l’uno per l’altro. Il futuro è nelle nostre mani, in mille piccoli abbracci d’argento sopravvissuti alla siccità.

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