Nel libro “I doni della Morte” Harry Potter e i suoi amici, Hermione e Ron, salgono a bordo di un carrello che li conduce sferragliando, curva dopo curva, nei sotterranei della Gringott, la banca dei maghi. Di lì a poco riusciranno ad entrare nella camera blindata di Bellatrix Lestrange, per cercare una coppa nella quale è conservata una parte dell’anima del perfido Voldemort. Compito non semplice, perché il calice è nascosto tra cumuli di monete d’oro, armature, pelli di strane creature, teschi. E soprattutto perché la stanza è protetta dalle maledizioni “Flagrante” e “Geminus”: ogni oggetto che viene urtato ustiona chi lo tocca e si duplica all’istante, generando in breve una marea spaventosa e soffocante.
Un sortilegio, quello della moltiplicazione fuori controllo, che conosciamo bene anche noi babbani. «Ogni cosa si allarga e prolifera», avverte il filosofo Byung Chul Han nel saggio Le non cose: come abbiamo smesso di vivere il reale. La realtà rischia di evaporare, ridotta a semplice sostrato di un flusso continuo di informazioni. Siamo sommersi da cumuli di spazzatura digitale che nasce da una coazione a comunicare da cui tutti siamo contagiati. Produciamo a getto continuo informazioni che devono piacere agli altri. Non si può forse riassumere in questo modo la nostra attività sui social? Nessuno si ferma più ad ascoltare. Siamo diventati ciechi nei confronti delle cose ordinarie. Non siamo più capaci di indugiare in silenzio. Condividere è più importante che pensare.
Secondo l’Accademia della Crusca, il termine “infodemia” indica un abnorme flusso di informazioni su un determinato argomento, prodotte e messe in circolazione con estrema rapidità e capillarità, tale da generare disinformazione. Conseguenze? Una distorsione della realtà ed effetti potenzialmente pericolosi sul piano delle reazioni e dei comportamenti sociali.Questo fenomeno è diventato endemico. Si è manifestato in maniera impressionante durante la pandemia, ha subito una ulteriore recrudescenza dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Il risultato è un senso di smarrimento derivante dalla consapevolezza di trovarsi immersi in un mare di nebbia, in buona parte autoprodotta. Un po’ come annaspare nelle sabbie mobili, risucchiati in basso dalla stessa smania di comprendere tutto, di trovare giustificazioni che sostengano le nostre convinzioni, e smontino quelle di chi non la pensa come noi: «O sei in cattiva fede, o sei disinformato, o più semplicemente sei assuefatto alla propaganda mainstream». Quante volte abbiamo sentito questa frase?
In un articolo pubblicato su “Avvenire” lo scorso 4 marzo, Gigio Rancilio ci ha ricordato uno dei tanti bias cognitivi (pregiudizi) di cui siamo vittime: quello che ci spinge a cercare ovunque, in maniera spasmodica, informazioni. Crediamo in questo modo di riuscire a dare un senso a ciò che sta accadendo. In realtà otteniamo esattamente l’effetto opposto: aumentiamo la nostra confusione, e rischiamo di diventare vettori inconsapevoli di disinformazione. «Ogni cosa che facciamo sui social ha sempre delle conseguenze». Cosa dobbiamo fare, dunque? Rilanciamo solo notizie provenienti da fonti affidabili. E ogni tanto regaliamoci una pausa. Potremmo guadagnare tempo per passeggiare tra gli edifici di Diagon Alley, entrare nella bottega di Olivander, e cercare una bacchetta di sambuco che ci liberi da questo incantesimo di parole senza misura.