di Ugo Bellesi
Il Carnevale nelle Marche è stato sempre ricordato per le grandi manifestazioni che hanno avuto il massimo splendore tra il XVI e il XVIII secolo. A Macerata, ad imitazione del Carnevale romano, era tradizione organizzare la corsa dei berberi che si svolgeva nello “stradone di Porta Romana”, e cioè lungo l’attuale corso Cavour. Tradizionale era anche l’estrazione della tombola che avveniva sempre allo Sferisterio.
Nelle campagne si festeggiava il carnevale con grandi “veglie” che vedevano riunite varie famiglie intente a divertirsi con suoni e danze, rifocillandosi con frittelle, sfrappe, scroccafusi e castagnole. Nelle città invece si tenevano grandi veglioni nei teatri comunali ai quali partecipavano anche operai e artigiani, mentre per le strade principali dei paesi si organizzavano feste in maschera. Coloro che nei teatri avevano i palchi potevano portarsi il cibo da casa e lì consumare la cena.
Si ricorda però che il 15 gennaio del 1859 (vigilia della caduta del governo pontificio) monsignor Niccola Milella, delegato apostolico per la provincia di Macerata, su disposizione del ministro dell’Interno, erano state emanate regole molto precise sul Carnevale. «I soliti divertimenti – si leggeva in un manifesto – incominceranno il 17 del mese corrente e avranno termine col martedì 8 marzo, eccettuate le feste di precetto, i venerdì e il giorno della vigilia della Candelora, nonché nei giorni che nei singoli paesi sono dedicati, per voto, al Signore». Invece con l’avvento del Regno d’Italia, ed esattamente nel 1871, fu ordinato «a tutti i cittadini di dimenticare rancori ed odii per avere un sol pensiero: l’allegria».
A Macerata il martedì grasso era tradizione celebrare la fine del Carnevale con la “processione dei moccolotti”: ogni cittadino doveva accompagnare il carnevale morto reggendo una candela accesa e contemporaneamente faceva in modo di spegnere la candela degli altri ma anche di salvare la propria. Finivano così tutti con gli abiti imbrattati di cera. Sempre il Martedì grasso, nei veglioni in teatro l’orchestra a mezzanotte suonava un motivo popolare che segnalava la fine delle danze. Contemporaneamente le campane delle chiese principali suonavano a distesa per annunciare la fine del Carnevale e dovevano subito cessare danze e baldorie. A Macerata le campane suonavano alle 22.30 per annunciare che si doveva mangiare tutto quanto rimaneva del cibo per poi procedere alla pulizia degli utensili di cucina con acqua bollente e liscivia. Le campane poi suonavano nuovamente alle 24 per ricordare la fine del carnevale. In altri comuni le campane suonavano alle 22.30 sempre per avvertire di consumare tutto il cibo; suonavano poi alle 23 per ricordare che bisognava far pulizia di pentole e piatti; suonavano infine alle 24 per annunciare l’inizio della Quaresima.
«I nostri avi – ricordava il nostro Giovanni Ginobili – osservavano scrupolosamente i quaranta giorni della Quaresima con severissima astinenza». Ovviamente niente carne ma soprattutto apparivano in tavola sardelle e aringhe, un po’ di verdure, e tante patate e legumi per accompagnare il pane che spesso era fatto soltanto con farina di granturco.