di Adelaide Compagnucci
Ogni volta che tornavo andavo a trovarla. Al salutarla il suo sguardo mi seguiva lungo tutto il viale, fino a quando giravo l’angolo. Aveva accompagnato la mia infanzia e parte della mia adolescenza. Ricordo ancora le sue attenzioni e i suoi regali, quelli di altri tempi ma che io gradivo in modo particolare come quelle perle piccole che formavano una collana che a me piaceva tanto. Era lei che si incaricava di preparare gli addobbi per il Giovedì Santo e mi mostrava all’inizio della Quaresima i semi di grano, di fagioli, di ceci e di altri cereali, che seminava in tanti vasetti e poi riponeva in una cassapanca all’oscurità perché germinassero.
Io mi alzavo sulle punte dei piedi e guardavo stupita quella meraviglia della natura, come se rubassi un segreto che lei voleva lasciarmi in eredità. Diventavano tutti fili bianchi che davano uno splendore particolare agli altari dove si esponeva il Pane, l’Eucarestia. Come lei tante persone hanno fatto parte dalla mia vita, lasciando un ricordo scolpito nella memoria e nel cuore. Carlo, uomo di grande arguzia e sano spirito critico. Quando mi rivide dopo dieci anni, allargò le braccia e ci abbracciammo, poi ci sedemmo e mi aggiornò sulla situazione, della frontiera in cui aveva scelto di lavorare come dottore. Peruviano di origine, brasiliano di adozione e anche un po’ paraguaiano. Conosceva alla perfezione tutti gli intrecci politico-mafiosi-massoni della zona e si divertiva a stupirmi con dovizia di particolari.
Quando lo salutai per l’ultima volta esclamò: Che pena!!! E aggiunse: L’amicizia non ha spazio né tempo!!! Aveva ragione non ci siamo mai dimenticati. Te ne vai? Mi chiese José. Comprese tutto in un istante. Ci legava un’amicizia fatta di stima e professionalità. L’unica persona che mi visitò dopo un intervento importante in una clinica che mi aveva consigliato. Anche con lui lunghe chiacchierate su temi diversi. Figlio di contadini, costaricense, laureato in medicina a Cuba. Spesso diceva che la sua professione era come quella di un sacerdote. Non si stancava mai di intervenire, aiutare, consigliare.
Quando ho dei problemi lo chiamo ancora e sempre risponde, mi spiega e mi incoraggia. Mi ha fatto partecipe della nascita del secondogenito, Fabián e ogni tanto mi invia le foto insieme alla sposa e ai due figli. Una famiglia giovane. Anche oltre Oceano si possono mantenere le amicizie che, pur nella distanza, si rafforzano. Nessun uomo è un’isola, -scriveva John Donne (1572-1631)- completo in sé stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. Lo stesso tema è ripreso in saggio di Thomas Merton che afferma: Quello che faccio viene dunque fatto per gli altri, con loro e da loro: quello che essi fanno è fatto in me, da me e per me. Ma ad ognuno di noi rimane la responsabilità della parte che egli ha nella vita dell’intero corpo.
L’isola mi ricorda anche un libro di Giorgio Amendola che scrisse per raccontare il suo amore per Germaine durato una vita a cui lei sopravvivrà solo poche ore. In qualche modo si collega al tema delle relazioni interpersonali in cui ognuno di noi è immerso, vive e ha vissuto sfatando la falsa illusione che siamo indipendenti e possiamo fare a meno degli altri. L’individualismo che impregna la nostra società ci fa credere che siamo autosufficienti. “Cerca di star bene e non dipendere da nessuno” ci suggeriscono in molti. Non contare neanche sui figli, che non possono essere caricati di un peso. Come se i genitori nel crescerli abbiano camminato sulle acque e non su pannolini sporchi, tra le pappe da preparare e le notti insonni.
Quante volte mi sento ripetere: “Non voglio dipendere da nessuno!!! Me la cavo da solo”.
Se nella mia vita avessi ragionato in questa maniera ero già seppellita da un lavoro estenuante. La parrocchia dove ho lavorato conta 23.000 abitanti. La metà di Porto Civitanova e il doppio di San Severino Marche. L’estensione della parrocchia è di 5.738 km² mentre l’estensione delle Marche è 9.401 km², e quella della diocesi di Macerata è di 745 km². È tutto detto, la parrocchia era grande quasi la metà di tutta la regione Marche.
Un sacerdote per 23.000 abitanti, invece nella sola diocesi di Macerata un sacerdote ha la cura 1.021 battezzati.
Che avrei realizzato io come missionaria, volontaria o come mi si voglia etichettare!!!
Non avrei certo potuto svolgere tutti i compiti: lettrice, liturgista, sacrestana, catechista, ministra della comunione, formatrice di giovani e non so che altro. Le circostanze mi hanno così insegnato che gli altri hanno dei doni nascosti da scoprire e valorizzare, che mai si può lavorare come in circoli chiusi, che ogni persona è portatrice di valori e ha qualcosa da dare e da ricevere. In poche parole “nessun uomo è un’isola”. È dunque falsa l’idea che possiamo fare da soli tutto e più di tutto e che viviamo in circoli ristretti dove solo un piccolo gruppo può essere ammesso.
Nei grandi spazi australi dove ogni giorno sulle piste di terra rischiavi di rimanere con la macchina impantanata nel fango che quasi ti risucchiava, qualsiasi persona ti dava una mano, ti ospitava invitandoti a pranzo, mentre qualcun altro cercava di aggiustare l’auto rotta, era la ben venuta, senza nessuna distinzione. Non ho bisogno di nessuno mi si ripete in continuazione, come per sollecitarmi a pensare allo stesso modo. Ma io so che ho una storia che non dimentico, dove le persone sono state per me dei punti di riferimento, nei momenti di incertezza quando ho avuto bisogno di consigli, di aiuto e di incoraggiamento. Mi raccontava un uomo torturato durante la dittatura che ha sconvolto l’America Latina negli anni ’70-’80 che la pena più dolorosa fu essere relegato in regime di isolamento. Non poter parlare con nessuno, non ricevere nessuna visita.
Nessun uomo è un’isola, nemmeno quando viaggia, infatti anche allora dipende dalla perizia dell’autista, del conducente del treno, del pullman, del tram o di qualunque altro mezzo. Perfino al supermercato quando facciamo la spesa ci affidiamo alle commesse o a chi lavora per trasportare la merce, per controllare le scadenze. Facciamo fatica ad ammettere che ci sono interrelazioni in qualsiasi ambito della nostra vita: se abbiamo un bagno rotto dipendiamo dalla professionalità dell’idraulico, perfino quando camminiamo per le scale di un condomino calpestiamo il pavimento che il lavoro di una donna ha puntualmente lavato e lucidato.
Al mattino presto ascolto il rumore del camion che raccoglie l’immondizia e carica tutto quello che noi abbiamo buttato, scartato e lasciato nella strada. “Non si può portare l’America Latina in Italia”, mi disse un giorno una persona, dimenticando che abbiamo un Papa che viene dall’Argentina. Non si tratta di portare ma di confrontarci, di condividere e di scambiare la nostra esperienza. Mi verrebbe da pensare che questa concezione di spazi, persone e luoghi, non tiene conto che Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini.
“Nessun uomo è un’isola”, continuo a ripetermi; nemmeno Dio anche Lui voluto mettersi in contatto con noi e rivelarsi spogliando sé stesso; per chi crede, questo è il massimo dell’amore e della relazione. Non è un Dio solo, ma un solo Dio (Don Tonino Bello).