Quando, due giorni fa, ho sentito mia nuora dire che l’8 maggio sarebbe andata a Perugia a trovare sua madre, perché «è la festa della mamma», sono rimasta colpita. Sarà che a casa nostra non ci siamo mai curati molto di queste feste, come pure degli onomastici e perfino dei compleanni (ogni tanto capitava che ce ne dimenticassimo qualcuno), fatto sta che questa frase mi ha fatto sentire un po’ in colpa.
Ho pensato a mia madre. E ho deciso di rimediare ai tanti regali che non le ho fatto in passato facendole un omaggio proprio oggi che è la festa della mamma, scrivendo un “ricordo” di lei.

La-Maestra-SaraSe chiedete della maestra Sara, se la ricordano tutti all’Abbadia di Fiastra, almeno quelli di una certa età. Sara Sciamanna Chiavari – sempre si firmava con i due cognomi – vi era arrivata da Tolentino, suo paese natale, sul finire degli anni ’30 per una supplenza alla scuola elementare: era giovane e bella, come si vede nelle foto dell’epoca, e mio padre, che lavorava nell’Amministrazione Bandini, se ne innamorò appena la vide. Nei trent’anni in cui vi è rimasta ha avuto generazioni di alunni, arrivando talvolta ad insegnare, dopo i padri, anche ai figli. Fare scuola le piaceva e lo faceva con passione: spesso, se qualche alunno era rimasto indietro, lo faceva venire a casa nostra nei giorni di vacanza e, intanto che cucinava, gli faceva fare degli esercizi in più. Quando aveva un alunno bravo faceva di tutto per convincere i genitori a farlo studiare, cosa che non era ancora nella mentalità di quei tempi, anche in chi ne aveva la possibilità, e provava un gran dispiacere se non riusciva ad ottenerlo. Per le faccende di casa non credo avesse molta simpatia – sicuramente pulire e spolverare non era il primo dei suoi pensieri – ma per la scuola non si risparmiava: a casa preparava grandi cartelloni colorati con le lettere dell’alfabeto sicché finivamo per imparare anche noi a leggere e a scrivere, immersi come eravamo tra libri e quaderni; mentre correggeva i compiti degli alunni noi, sbirciando quelle pagine, le vedevamo piene di figure colorate: mamma infatti amava disegnare e le piaceva che anche i suoi alunni imparassero, così li invitava, una volta finito il compito, ad illustrare temi o problemi con un disegno. Alle bambine insegnava a ricamare, e lei stessa preparava asciugamani di tela con gli inserti per il punto a croce e matassine di cotone di tutti i colori. Tante cose le aveva imparate a Camerino, dove era stata per cinque anni in un convento di suore per frequentare l’Istituto Magistrale: oltre alle materie di studio si era esercitata nella pittura all’acquerello, a suonare il pianoforte, a ricamare.

Aveva tanti altri interessi e le sue giornate erano piene: coltivava un orticello non lontano da casa e passava i pomeriggi estivi a zappare e trapiantare, allevava galline nel pollaio sotto la finestra della cucina e quando si ammalavano faceva loro le iniezioni; in inverno, quando si faceva notte presto e bisognava stare in casa, spesso si metteva al pianoforte e suonava vecchie melodie o anche le canzonette in voga al suo tempo, quando trovava lo spartito nei pochi negozi di articoli musicali di Macerata o Tolentino. È stata la prima donna nella zona a guidare la macchina: aveva imparato da papà e all’inizio la guidava senza patente, tanto per le strade dove andava lei non c’era mai nessuno a chiederla. Aveva vedute moderne in tanti campi e non si lasciava trascinare dalle opinioni comuni, se le riteneva sbagliate. Non ci assillava con obblighi faticosi o divieti inutili: non ci obbligava a mangiare se non avevamo fame, non pretendeva che prendessimo sempre bei voti, non ci faceva coprire se dicevamo di aver caldo, anche se tutti gli altri erano infreddoliti… E  il primo giorno di mare ci lasciava fare il bagno, unici della spiaggia, e ci permetteva di stare in acqua a lungo, purché non cominciassimo a battere i denti o ad avere la “pelle d’oca”.

Quando era in faccende e si sentiva contenta, la sentivamo cantare. Erano canzonette ingenue, ballabili, che mettevano allegria a sentirle:

«Rosa bella dimmi sì, sì, sì
ch’io per sposa voglio te, te, te
don Giacinto già lo sa, sa, sa
che sposare ci dovrà…»

La sua presenza era rassicurante, rasserenante: sapevamo che, qualunque cosa le raccontassimo, non si sarebbe adirata, non avrebbe alzato la voce, ma ci avrebbe dato il suo aiuto. Anche le donne che la incontravano, all’Abbadia, si fermavano a parlare con lei, le chiedevano consigli o le raccontavano le loro pene. Era energica e saggia. Non badava alle apparenze, non diceva mai «Che dirà la gente?». La sua forza le veniva da una fede profonda, umile, priva di ogni traccia di superstizione, che ci ha inculcato con l’esempio più che con le parole. Una donna di campagna ha fatto una sintesi curiosa delle sue qualità: «Tua madre era una sopraddonna!» mi ha detto, convinta, una volta.

Sei stata la madre che tutti vorrebbero avere. Grazie, mamma.

Maura Chiavari

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