di Fabio Zavattaro

«Fa male al cuore quando vedo l’orario nelle parrocchie: da tal ora alla tal ora. E poi non c’è porta aperta, non c’è prete, non c’è diacono, non c’è laico. Questo fa male al cuore». Torna ancora una volta, Papa Francesco, sul tema della Chiesa che deve accogliere, e lo fa celebrando, in piazza San Pietro, il Giubileo dei diaconi: «chi serve non è schiavo dell’agenda che stabilisce, ma, docile di cuore, è disponibile al non programmato: pronto per il fratello e aperto all’imprevisto, che non manca mai e spesso è la sorpresa quotidiana di Dio».

I diaconi, laici anche sposati che aiutano il parroco nella sua missione, in tutto il mondo sono 45mila, e più di centoventi nella diocesi di Roma. Un numero in continua crescita, unica componente della struttura ecclesiale, da quando il Concilio li ha nuovamente istituiti, 50 anni fa. Il diacono, ha ricordato ancora Francesco, «non gioca a scimmiottare il prete, ma sono ministri della carità a imitazione di Gesù, primo diacono».

Una Chiesa dalle porte aperte, è il messaggio che Francesco propone ai diaconi. Parole che riportano alla mente il discorso che Francesco ha rivolto all’assemblea dei vescovi italiani e che disegna il pastore – è il titolo dell’Osservatore Romano del 18 maggio scorso – “scalzo, leggero e senza agenda”. L’essere scalzo richiama uno stile di vita ed è un modo di porsi in cammino nello stile del discepolo, del pellegrino, nella cui bisaccia c’è l’essenziale e dunque rinuncia del superfluo. Quell’essere scalzo significa anche togliersi i calzari come Mosè di fronte al roveto ardente, perché la terra che calpestava era santa.
Disponibilità, mitezza e servizio sono le tre parole con le quali il Papa indica il modo di essere discepoli di Gesù, quell’ambire a diventare servitori, come ha fatto Paolo: «se evangelizzare è la missione consegnata a ogni cristiano nel Battesimo, servire è lo stile con cui vivere la missione, l’unico modo di essere discepolo di Gesù».

Ed ecco allora la prima delle tre parole che consegna ai diaconi: disponibilità. «il servitore ogni giorno impara a distaccarsi dal disporre tutto per sé e dal disporre di sé come vuole. Si allena ogni mattina a donare la vita, a pensare che ogni giorno non sarà suo». Chi serve, afferma ancora Francesco, «non è un custode geloso del proprio tempo, anzi rinuncia ad essere il padrone della propria giornata. Sa che il tempo che vive non gli appartiene, ma è un dono che riceve da Dio per offrirlo a sua volta: solo così porterà veramente frutto».
È persona aperta alle “sorprese quotidiane di Dio” e sa aprire «le porte del suo tempo e dei suoi spazi a chi gli sta vicino e anche a chi bussa fuori orario, a costo di interrompere qualcosa che gli piace o il riposo che si merita». Non è uno con l’orologio tra le mani.

Poi la seconda parola: mitezza. Ricorda il brano del Vangelo del centurione – il Papa ha celebrato giovedì il Corpus Domini – che chiede l’intervento di Gesù per il suo servo malato, ma non ritenendosi degno di accoglierlo nella sua casa, gli chiede solo una parola nella certezza che il suo servo sarà guarito. Sorprendente «l’umiltà del centurione, la sua mitezza». Proprio la mitezza “è una delle virtù dei diaconi”. Come il centurione che «si fa piccolo, discreto, mite, non alza la voce e non vuole disturbare. Si comporta, forse senza saperlo, secondo lo stile di Dio, che è mite e umile di cuore». Per amore, ricorda Francesco, Dio «si spinge fino a servirci: con noi è paziente, benevolo, sempre pronto e ben disposto, soffre per i nostri sbagli e cerca la via per aiutarci e renderci migliori».

Imitare Dio, dunque, servendo gli altri, per essere veri discepoli. Accogliere gli altri «con amore paziente, comprendendoli senza stancarci, facendoli sentire accolti, a casa, nella comunità ecclesiale, dove non è grande chi comanda, ma chi serve». Per questo c’è bisogno di “un cuore risanato da Dio”. E della preghiera dove presentare al Signore le fatiche, gli imprevisti, le stanchezze e le speranze, per essere “disponibili nella vita”, e non aver paura «di incontrare e accarezzare la carne del Signore nei poveri di oggi».

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