Il prossimo 23 settembre ricorrerà il centesimo anniversario della nascita di Aldo Moro. Nella memoria collettiva del nostro Paese la figura di Aldo Moro rischia di essere schiacciata dalla successione di eventi culminata con la sua morte. Effettivamente, con l’omicidio del politico democristiano, la stagione terroristica aveva trovato il suo apice e la guerra alle istituzioni aveva individuato e colto un bersaglio di primissimo piano (leggi qui l’articolo sulla biografia pubblicata da Guido Formigoni).

Un primo dato importante della biografia morotea è la sua appartenenza a una generazione cresciuta e maturata durante gli anni del regime fascista. Un tale aspetto deve sempre essere tenuto in considerazione quando si analizza il rapporto tra questa generazione e l’ideale democratico. Sul finire del 1938 Moro si laureò con il massimo dei voti in Giurisprudenza, avviando pochi giorni dopo la propria carriera universitaria come assistente volontario per la cattedra di Diritto penale all’Università di Bari. A partire dall’anno accademico 1940-1941 fu professore incaricato di Filosofia del diritto, cattedra particolarmente idonea al suo profilo formativo, mentre per alcuni anni tenne anche i corsi di Storia delle dottrine politiche e di Storia e politica coloniale.

La sua formazione giuridica avvenuta negli ambienti meridionali sarà assolutamente decisiva per la comprensione della sua elaborazione teorica e la conseguente progettualità politica. L’impegno nella politica da cattolico Moro svilupperà il suo percorso di militanza soprattutto nelle file della Fuci (Federazione universitaria cattolica italiana) e del Movimento laureati di Azione cattolica, divenendone un importante dirigente (leggi qui l’articolo di Nausica Manzi, incaricata regionale Marche della Fuci).

Tra il 1939 e il 1942 sarà infatti presidente della Fuci e, successivamente, tra il 1945 e il 1948, svolgerà un delicato ruolo di guida degli intellettuali cattolici. In occasione delle elezioni dell’Assemblea Costituente una quota di candidati nelle liste della Dc fu riservata a membri dell’Azione cattolica. Come presidente del Movimento laureati e figura di spicco del cattolicesimo organizzato, Moro era un candidato, in qualche modo, “naturale”. Dal 2 giugno 1946 la politica divenne dunque la sua attività principale, affiancata da quella universitaria e, sino alla fine del 1948, dagli impegni nel Movimento laureati. In Assemblea Costituente, però, il ruolo di Moro non fu quello di comprimario.

Il giovane filosofo del diritto faceva parte della commissione dei settantacinque chiamata a redigere la Costituzione ma, soprattutto, fu una delle personalità più attive della prima sottocommissione, incaricata di elaborare il testo costituzionale per la parte relativa ai diritti e doveri dei cittadini. Nei lavori costituenti Moro sviluppò un intenso rapporto con Dossetti e il gruppo che si andava formando attorno a lui all’interno della Dc. Fu proprio la Costituente ad amalgamare questo gruppo e a farlo emergere come il principale antagonista alla leadership di Alcide De Gasperi. Moro e la sua concezione inclusiva dello Stato Sin da questa prima esperienza, le peculiarità di Moro emergono in modo evidente.

Il suo approccio ai lavori era in piena sintonia con l’impianto dossettiano e lapiriano, finalizzato alla rivendicazione della centralità della persona umana e, dunque, del personalismo come filosofia ispiratrice del testo costituzionale; della centralità del mondo del lavoro, espressione di quella “civiltà del lavoro” che appariva come il fondamento di una nuova era; della centralità dei diritti, da quelli tradizionali civili e politici per arrivare ai diritti sociali, che costituiranno la base della concezione democratica non solo formale o procedurale ma, come affermavano gli stessi protagonisti, “sostanziale”. Su questa base s’innestava la peculiare concezione dello Stato del politico pugliese, elaborata negli anni ’40 attraverso le sue lezioni universitarie e che aveva evidenti influenze filosofiche idealiste. In essa si rinviene la preoccupazione più determinante della sua concezione istituzionale, che condizionerà tutta la sua attività.

A Moro appariva chiaro che la Costituzione italiana aveva il suo indiscutibile fondamento nell’antifascismo, ma quella base consensuale, decisiva per la costruzione dell’architettura istituzionale e valoriale della Repubblica, non trovava più una corrispondente espressione nell’area di governo, nel senso che la divisione del mondo in due sfere di influenza tipica dell’incipiente guerra fredda aveva creato una frattura che relegava la sinistra comunista e socialista all’opposizione. Le masse social-comuniste, se potevano essere rappresentate all’interno dell’arco costituzionale, non lo erano, per ragioni strutturali, nell’area di governo. L’esclusione di queste ampie masse costituiva un problema rilevante per Moro.

Fautore della coalizione del centrosinistra Considerato inizialmente un traghettatore, chiamato a riequilibrare momentaneamente il partito di cui è eletto segretario. Dopo la stagione di Amintore Fanfani, che aveva esercitato la sua leadership in modo piuttosto accentratore, Moro si rivelò invece un profondo innovatore. In esatta antitesi all’autoritarismo dell’ex segretario, la sua leadership è stata definita “federativa”, capace cioè di tenere assieme le diverse anime del partito, evitando la radicalizzazione delle opposizioni interne. Attraverso una sapiente opera di mediazione tra le varie anime della Dc, alcune delle quali profondamente restie a qualsiasi forma di collaborazione con il Partito socialista, e un lento ma efficace confronto con le gerarchie cattoliche, che vivevano la stagione delle trasformazioni conciliari, egli condusse in porto le trattative per dare forma al governo di centrosinistra. Così come la DC nel dopoguerra aveva consentito e rappresentato la piena integrazione delle masse cattoliche, ora si compiva un altro decisivo passo in avanti.

Lo Stato, che nella concezione morotea era da considerare sempre in fieri, in un processo di sviluppo mai definitivamente compiuto, aveva ulteriormente allargato la propria base di consenso. Fu questo il maggiore successo della segreteria politica di Moro (1959-1964). Proprio in quanto artefice principale della formula di centrosinistra, nel dicembre del 1963 fu nominato Presidente del consiglio, mentre la vicepresidenza era assegnata all’altro grande protagonista di questa svolta, il leader socialista Pietro Nenni. In Moro la sensibilità sociale, il riconoscimento dell’importanza del mondo del lavoro, l’interpretazione della moderna società di massa hanno diversi punti di contatto con l’approccio dossettiano, mentre la ricerca di elementi di mediazione, l’abilità nel gestire le diverse posizioni e l’esercizio di un’efficace funzione direttiva rappresentano aspetti vicini alla personalità degasperiana.

Al di là di queste considerazioni assai generali, va riconosciuto che Moro espresse una propria peculiare visione della politica e delle azioni ad essa legate. L’attenzione al divenire della storia, ai processi sociali, ai cambiamenti di una modernità complessa, la consapevolezza dei compiti ardui di una classe dirigente chiamata a governare questi problematici processi, costituivano la premessa al suo pensare e agire la politica. Un esempio significativo fu il Sessantotto. Di tutti i leader della DC, ma anche degli altri partiti, tanto al governo quanto all’opposizione, Moro fu uno dei pochi in grado di cogliere in profondità le radicali novità che andavano emergendo, il travaglio – per usare le sue parole – di un’umanità nuova. Queste novità andavano comprese, analizzate per poi fornire risposte adeguate. La principale preoccupazione di Moro era costituita dalla fragilità degli istituti della democrazia rappresentativa, la cui difesa doveva essere un dovere inderogabile della classe dirigente. Ancora una volta, appariva decisiva la questione delle masse. Nell’approccio moroteo, era cruciale sostenere la capacità di integrazione delle democrazie parlamentari, offrendo alle masse simboli e miti in grado di mobilitarle, inserendole attivamente nei processi democratici istituzionali.

Sulla base di queste analisi e convinzioni, Moro aveva maturato una nuova “strategia dell’attenzione” nei confronti del Partito comunista. La tesi di un’apertura ai comunisti come premessa al loro ingresso al governo era una posizione polemica sostenuta dagli avversari di Moro. La sua idea era invece di inaugurare una nuova fase dei rapporti con il Pci, coinvolgendolo più attivamente, nella convinzione che esso potesse essere rappresentativo dei nuovi fermenti che andavano emergendo nella società. La figura di Moro, decisiva tanto sul piano della politica estera quanto su quello della leadership di governo, aveva acquisito da tempo una centralità evidente nel sistema italiano. Nella nuova strategia delle Brigate rosse caratterizzata dallo slogan dell’«attacco al cuore dello Stato», lo statista pugliese rappresentava un bersaglio privilegiato.

Il 16 marzo 1978 Moro veniva rapito, dopo l’uccisione della sua scorta. Tenuto prigioniero per cinquantacinque lunghi giorni venne assassinato il 9 maggio.

Paolo Acanfora in Aggiornamenti Sociali

(Newsletter n. 132 del Circolo Aldo Moro di Macerata, del 19 settembre 2016)

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