Archiviata anche questa ultima tornata di elezioni amministrative. Oltre 160 comuni, anche grandi e importanti al voto e, al di là della solita stucchevole litania su chi ha vinto e chi ha perso (stavolta in verità un po’ meno, considerati i risultati netti emersi) un dato spicca in maniera certa ed inequivocabile: l’Italia è entrata ormai a pieno titolo nel club delle grandi e moderne democrazie occidentali.

Per sviluppo economico, reddito pro capite, rispetto dei diritti umani, equità e giustizia sociale? Magari! No, il club di cui siamo parte è quello dei paesi in cui è diventato normale che a scegliere la classe dirigente e governante sia non la maggioranza dei cittadini bensì una minoranza, talvolta molto piccola, di essi.

Il numero di coloro che si recano alle urne ed esercitano il diritto civile e costituzionale di scegliere i propri rappresentanti diminuisce infatti costantemente ad ogni elezione di qualsiasi natura ( e ne abbiamo una discreta varietà..). In occasione del recente turno di ballottaggio amministrativo è stato del 46% degli aventi diritto. Ciò significa che in moltissimi comuni, il Sindaco è stato eletto con il voto di appena 1/5 dei cittadini elettori. Un dato preoccupante e mortificante per il sistema della rappresentanza democratica.

E che dire del fatto che sembrerebbe che oltre agli elettori comincino a scarseggiare anche i candidati visto che a Penna San Giovanni (MC) non si è riusciti a trovare nessuno che si offrisse di fare il sindaco e le elezioni non si sono neanche potute tenere perché nessuna lista è stata presentata? Per non parlare della tragicomica vicenda di Trapani dove l’unico candidato nel turno di ballottaggio (si unico… nel senso che non c’erano altri oltre lui in corsa) non è riuscito a farsi eleggere (sic!) in quanto a votare non sono andati almeno la metà degli aventi diritto. Ed ora arriverà il Commissario. A margine di questa incredibile notizia, passata quasi sotto silenzio, andrebbe approfondito il perché se non è valida l’elezione conseguita con una affluenza inferiore al 50% degli aventi diritto quando c’è un unico candidato, debba esserlo invece quando i candidati sono due.

Un fenomeno di tale dimensione, può essere contenuto all’interno della solita stucchevole discussione sul distacco tra “paese reale e paese legale” o ci obbliga a riflettere e a porci domande nuove? La domanda è ovviamente retorica. E allora vediamo di porcene alcune.

La prima. È poi così vero che il crescente astensionismo preoccupa i nostri politici così come essi, generalmente, vanno dicendo da sempre? La classe dirigente in carica riceve un danno o trae vantaggio da questo fenomeno? Appare evidente che alle parole proclamate non seguano comportamenti e fatti coerenti e conseguenziali. E allora il dubbio nasce legittimo anche perché è molto più facile “gestire” il voto di piccole minoranze altamente fidelizzate che quello di una massa impossibile da controllare nella sua eterogeneità. Inoltre, siccome come è noto chi non vota delega ad altri la propria scelta, si abbassano vertiginosamente in questo modo numeri e soglie necessari al conseguimento del risultato. Talvolta in qualche piccolo comune bastano i parenti nemmeno tanto allargati. Facile immaginare con quali conseguenze in termini di reale rappresentatività e di efficace selezione della classe dirigente. Anche per questo, quindi, ma non solo, è del tutto fuori luogo la meraviglia con la quale si constata il generale scadimento della qualità di governo espressa dalle nostre Istituzioni, il tracollo della fiducia del cosiddetto paese reale nei confronti di chi ci governa.

Seconda domanda. Siamo di fronte ad una degenerazione ineluttabile del circuito democratico che come tale va accettata e metabolizzata, oppure il fenomeno si deve a questioni ed aberrazioni che riguardano in particolare l’Italia e che possono essere corrette con riforme specifiche e cambiamenti del sistema?

La generalità e la diffusione del fenomeno astensionistico, comune a tutte le democrazie moderne, sembrerebbe far propendere per la prima ipotesi. Inoltre, mentre le società a struttura semplice del passato avevano nell’esercizio del voto il principale se non esclusivo elemento di espressione, nel mondo complesso ed articolato in cui viviamo la stratificazione e l’intreccio degli interessi trova in molteplici ambiti (finanza, sindacato, categorie, lobby di varia natura, mezzi di comunicazione etc) i luoghi della propria rappresentazione ed anzi tende a privilegiare questi rispetto a quelli tradizionali (partiti) che appaiono sempre più in crisi.

Non c’è dubbio, tuttavia, che nel nostro Paese più che altrove il problema sia divenuto negli ultimi anni davvero serio.

Innanzitutto per l’adozione di leggi elettorali che sottraggono all’elettore reali poteri di scelta. In realtà, l’elettore non va più al seggio perché lo ritiene esercizio inutile. Anche dove infatti il sistema elettorale (ve ne sono talmente tanti e diversi che neanche gli addetti ai lavori riescono più a padroneggiare la situazione) sembrerebbe fondarsi sulla preferenza espressa, l’accesso alla candidatura è processo accuratamente gestito ed influenzato dagli apparati di partito. La selezione avviene pertanto già a monte e spesso all’elettore non resta, quando va bene, che la magra soddisfazione del gioco della torre. In questo senso si spiegano anche i recenti e ripetuti risultati del tutto opposti alle previsioni (referendum Grecia, Brexit, elezione Trump etc). In secondo luogo, si vota troppo spesso e, si sa, la ripetizione del gesto spesso ne svilisce e inflaziona senso e importanza. Per di più, votare più volte in tempi molto ravvicinati e per livelli di governo diversi accentua la dipendenza dell’eletto dalla verifica di consenso che ogni elezione porta con sé. Affievolisce in modo speculare la sua autonomia e la capacità di assumere decisioni di media lunga prospettiva, tanto necessarie quanto impopolari nell’immediato ed accresce irresistibilmente la tentazione di consumare il mandato in decisioni effimere e di istantanea percezione pensando già alla prossima tappa del cursus honorum. La qualità di governo finisce per risentirne in modo drammatico e si allarga ulteriormente lo iato rispetto al comune sentire della gente in una spirale viziosa ed incrementale.

Terza domanda. Quanto incide in questa incolmabile distanza che sembra essersi creata tra eletto ed elettore la professionalizzazione della politica favorita dalla attuale eccessiva (salvo poche eccezioni) remunerazione delle cariche pubbliche elettive?

Difficile negare che possa realmente incidere ed anche parecchio. All’allontanamento dall’impegno politico delle energie migliori della società civile favorito dal dilagare del fenomeno corruttivo e della conseguente perdita devastante d’immagine della classe politica nel suo complesso fa da contrappunto il progressivo avvicinamento di molti che lungi dal considerare l’impegno politico una passione sono mossi dalla ricerca di reddito e di sistemazione. Probabilmente, solo con un riavvicinamento forte della Politica al vissuto quotidiano delle persone si potrà pensare di recuperare quel minimo di credibilità, oggi del tutto compromessa, che è all’origine del totale disinteresse e che si manifesta plasticamente nell’astensionismo in occasione del voto.

Ma per fare questo servono riforme vere, di netto ed inequivocabile segno oltre che un ritorno senza tentennamenti ai quei valori (una volta si parlava spesso di pre-politico) che sono alla base dell’impegno politico inteso come servizio e non come semplice carrierismo.

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