di M.Michela Nicolais

I giovani? “Una generazione di scarti”. Il Papa? Il loro “avvocato difensore”. Ad un mese dalla conclusione, Thomas Leoncini, scrittore, studioso di modelli psicologici e sociali e uditore al Sinodo traccia il ritratto di “una Chiesa coesa che sta seguendo Papa Francesco e ha capito la gravità della situazione dei giovani, ma soprattutto sta lavorando per fare qualcosa di pratico”, come dimostra il documento finale.

Un mese dopo, qual è la “fotografia” che ti porti ancora nel cuore?

È stato un mese storico perché la Chiesa si è fermata ad ascoltare un’intera generazione, quella dei giovani, considerandola per quello che è realmente: una generazione di scarti.

Può sembrare troppo pessimistica questa affermazione, ma i giovani sempre più globalmente vengono illusi e finiscono frustrati. Si arricchiscono, ma solo di competenze, che però non mantengono le promesse di occupazione e, quindi, di appagamento necessario per scaricare le tensioni accumulate. I giovani sono una generazione fragile, non solo nei legami con gli altri, ma anche nel profondo di se stessi, nel precario mondo del lavoro e del welfare, sempre più privilegio piuttosto che diritto.

Pensiamo appunto al lavoro: la logica non esiste più, si vive solo nell’input dei nuovi inizi e tutte le promesse in cui una volta si era propensi a credere, ora si sgretolano, si disintegrano lasciando ai giovani solo la frustrazione e un grande senso di inutilità.

Le prime grandi vittime di questa società liquida sono i giovani. Riconoscerlo non è così scontato, anzi, non tutti ne sono ancora consapevoli.

La fotografia post-Sinodo è di una Chiesa coesa che sta seguendo Papa Francesco e ha capito la gravità della situazione dei giovani, ma soprattutto sta lavorando per fare qualcosa di pratico. Il documento finale testimonia sicuramente questo sforzo.

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Durante il primo Sinodo dedicato interamente ai giovani, Papa Francesco è stato uno di voi, anche nei momenti informali come la pausa caffè. Con il tuo libro “Dio è giovane”, in un certo modo, hai “anticipato” il Sinodo. Quale Papa hai conosciuto parlando con lui in quell’occasione, e quale Papa hai incontrato durante il mese di lavoro in Vaticano?

Lo stesso identico Papa, un Papa umano e testimone di vita.

Ho ritrovato quell’uomo senza filtri che ho conosciuto nel profondo delle sue emozioni, quelle che si soffermavano con un velo di nostalgia sulla sua infanzia a Buenos Aires. Durante i nostri sei lunghi incontri per scrivere “Dio è giovane”, tradotto in tutto il mondo, si è mostrato senza paura, raccontando anche i dolori della sua giovinezza, le sue paure più intime del Bergoglio bambino e adolescente. Papa Francesco non ha paura di essere se stesso e questo è indispensabile per essere amati dai giovani, che anche nelle periferie sono invece subissati da maschere e da esempi di predicatori che spesso razzolano male.

Non esagero quando dico che Papa Francesco è l’avvocato difensore dei giovani del mondo, non ha paura di frequentare il futuro, e frequentare i giovani significa frequentare il futuro.

Nel tuo intervento al Sinodo hai parlato, tra l’altro, della “latitanza” della politica nei confronti dei giovani: cosa fare per sollecitarne il protagonismo?

Siamo di fronte ad una società che si sta velocemente de-civilizzando. Solo fino a qualche anno fa parlare di razze avrebbe fatto sorridere e sarebbe sembrato anacronistico in un’epoca ritenuta così all’avanguardia come la nostra. Ora invece non ci si vergogna più a parlare di diversità come un problema da risolvere. E questo è un omicidio da ergastolo: l’omicidio del dialogo. La velocità con cui è cambiato questo aspetto è allarmante e pericolosa.

Sarebbe fondamentale creare un forte collegamento onesto tra i giovani e i vecchi: i giovani devono poter sognare un mondo democratico fatto di valori e ideali, non solo di utile immediato.

La politica, invece di tentare di risolvere questo problema, ha eretto a unico dio l’utile immediato e quindi, consapevolmente o inconsapevolmente che sia, sta assecondando questo stato di cose.

Tra i temi emersi dal confronto tra vescovi e giovani al Sinodo, quali ritieni siano più urgenti da affrontare, affinché la voce dei giovani sia realmente ascoltata e tenuta in considerazione?
Personalmente ritengo necessario che chi rappresenta la Chiesa, soprattutto nelle periferie, sia testimone di vita e di fede, parlando un linguaggio semplice e diretto che sia soprattutto ascolto, piuttosto che sentenza. Credo sia necessario discernere in modo molto urgente tra situazioni che richiedono un “supporto” e situazioni che invece richiedono un “recupero”, ma deve essere il giovane a chiedere di essere recuperato.

Un giovane deve essere libero di sbagliare, se sbaglia con coraggio e determinazione.

Sbagliare è sempre necessario per crescere e cambiare la propria vita, per conoscersi e capire che strada si deve intraprendere.

Se il giovane chiede supporto alla Chiesa, quest’ultima non può rischiare di finire nel moralismo e pretendere di avere una soluzione universale per ogni problema privato.

Il giovane che si avvicina al sacerdote perché ha un problema e vuole parlarne con qualcuno, è un giovane che teme il giudizio, vuole appunto un supporto, non vuole un recupero. Il giudizio dei sacerdoti, se non richiesto dai giovani, è un cappio al collo per la Chiesa.

La presenza dei giovani è stata, secondo te, determinante al Sinodo, oppure la Chiesa ha ancora dei passi da fare, e quali, per “sintonizzarsi” sulla vita concreta dei giovani? 
La presenza dei giovani è stata indispensabile perché ognuno di loro ha portato le testimonianze dei giovani del loro Paese e il dialogo che si è creato è stato fecondo e pieno di voglia di cambiare le cose.

In aula sinodale tecnicamente eravamo in qualche centinaio, ma per le testimonianze portate eravamo milioni di persone.

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