di Gianni Borsa

Libertà, speranza, fraternità le parole ricorrenti. No deciso alla “cultura dell’odio”, no alle “trincee”. Sì a una società inclusiva. E, ancora, giovani e famiglie in primo piano, il cammino ecumenico, la condanna del comunismo, la costruzione della “casa comune” europea. Sono innumerevoli i temi sollevati da Papa Francesco nel suo viaggio apostolico in Romania, svoltosi dal 31 maggio al 2 giugno. Ne parliamo con padre Giuseppe Riggio, gesuita, caporedattore della rivista “Aggiornamenti sociali”, analista politico ed esperto di temi europei.

Padre Riggio, la prima sottolineatura al ritorno di Bergoglio dalla Romania potrebbe riguardare i momenti vissuti con i rappresentanti della Chiesa ortodossa. Il Pontefice ha affermato che l’incontro si fonda sul “pregare” e “camminare” insieme. Un messaggio, rispettoso e amichevole, che apre a nuove relazioni soprattutto nei Paesi in cui la minoranza cattolica si confronta con una Chiesa ortodossa maggioritaria?
Fin dall’inizio del suo pontificato Papa Francesco si è speso con generosità per far avanzare il dialogo fraterno con le altre confessioni cristiane. L’insistenza sull’avverbio “insieme” esprime in modo sintetico la sua visione: non c’è vero cammino se non vi è il contributo di tutti. Fare propria questa visione significa passare da una logica della contrapposizione e rivalità tra confessioni, preoccupate di preservare i propri spazi, a una logica del mutuo riconoscimento e della stima per l’originalità dell’apporto di ciascuno. Camminare, pregare, lavorare insieme con gli ortodossi diventa allora la via concreta per concentrarsi sui tanti elementi che uniscono invece che sui pochi che dividono. Un approccio di questo tipo, se assunto fino in fondo, può cambiare in modo radicale le relazioni tra cattolici e ortodossi, aprendo la strada a collaborazioni ancor più ampie e diffuse di quelle già in atto.

Numerosi i moniti di Francesco su temi a carattere storico e politico. Si pensi al “no alla cultura dell’odio, sì alla fraternità”, l’invito a edificare una “società inclusiva”, a prendersi cura dei più svantaggiati, alla richiesta di perdono alla comunità rom… Quali, a suo avviso, le preoccupazioni di fondo che traspaiono da queste parole del Papa?
Lo sguardo di Papa Francesco abbraccia tutto il mondo ed è evidente per lui che i segni della “terza guerra mondiale a pezzi” non cessano di moltiplicarsi. Sono tanti, troppi, i conflitti attualmente in corso nel mondo, il più delle volte lontani dai riflettori mediatici, che causano numerose vittime e costringono migliaia di persone a lasciare le loro case.E poi ci sono anche i conflitti di tipo sociale e ambientale, dovuti all’approfondirsi di diseguaglianze e ingiustizie all’interno della società, che sperimentiamo anche in realtà a noi vicine.Non sono conflitti immediatamente violenti, ma sono in grado di dividere una comunità nel profondo e finiscono con alimentare il senso di sfiducia nei confronti delle istituzioni, incapaci di dare una risposta alle richieste di chi paga il prezzo più alto. Da qui nasce il senso di ingiustizia che prende le forme di una rivendicazione “contro” chi riveste ruoli di responsabilità – ed è considerato all’origine della situazione attuale – e chi è visto come un concorrente minaccioso, perché appartiene a un’altra comunità ed esprime una richiesta di aiuto o invoca un diritto che possono “danneggiarmi”. Di fronte al moltiplicarsi dei conflitti e delle divisioni, il richiamo continuo di Francesco è per il dialogo e l’unità. È un dato di fatto innegabile – e anche inevitabile – che vi siano posizioni e interessi contrapposti all’interno della società o tra gli Stati, ma la ricerca di una soluzione positiva e duratura nel tempo a questi conflitti non è data dall’alimentare le divisioni, bensì dall’impegno effettivo sul piano della collaborazione e della solidarietà. Chiudere le porte non risolve i problemi di nessuno, né di chi si rinchiude nella paura di dover difendere uno spazio minacciato né di chi resta tagliato fuori e farà tutto ciò che gli è possibile per mettere al sicuro la propria vita o quella dei suoi cari.

“Il politico non deve seminare odio ma speranza”: in un’Europa attraversata da nazionalismi e nuovi muri, quale vorrebbe essere l’indicazione di Bergoglio?
Possiamo dire che con questa frase – molto forte e netta – Papa Francesco si rivolge direttamente ai politici, che per il loro ruolo di responsabilità possono e devono spendersi perché vengano meno i motivi che alimentano la divisione e la violenza della chiusura tra clan che si combattono.

Parlare di speranza significa invitare ad alzare lo sguardo,

a non concentrarsi sull’immediato, sulle urgenze dell’ultimo minuto o sulle scelte considerate più “popolari” tra i propri elettori grazie ai sondaggi. Ai politici il Papa chiede di tornare a guardare al presente della società come un bene da coltivare a beneficio di tutti, sognando in grande, immaginando quale modello di società si desidera per il domani. Seminare la speranza significa anche ridare fiducia, ricostruire la fiducia tra cittadini e classe politica, perché senza questo elemento nessuna società può pensare di avere un domani.

L’Europa torni al “sogno dei padri fondatori”: Francesco chiede di volgere lo sguardo al futuro, altrimenti “l’Europa appassisce” e invita i popoli e gli Stati del continente a lavorare insieme per la pace e il benessere dei cittadini. Un richiamo rivolto ai politici dopo le elezioni per il rinnovo dell’assemblea Ue?
Nel corso di questi anni gli interventi di Papa Francesco sono stati tra i contributi più significativi nel dibattito ancora aperto sul senso e il futuro delle istituzioni europee. Le parole pronunciate in Romania ribadiscono con forza il pensiero di Francesco ed è tanto più importante che ciò avvenga in uno dei Paesi dell’ex blocco comunista, tra gli ultimi che hanno aderito all’Unione europea. Con le elezioni di pochi giorni fa si è aperta una nuova fase nella politica europea: non è più possibile mantenere il passo che si è tenuto nell’ultimo periodo ed è importante che si affrontino dossier fino ad oggi secondari, come in campo sociale, ma ancor prima di mettere a punto nuove e più efficaci politiche,la classe dirigente a livello europeo e nazionale è chiamata a discutere insieme quale idea di Unione europea vogliamo costruire nell’immediato futuro.Ma questo lavoro non può essere fatto senza passare per la memoria del passato, riconoscendo il valore di un’intuizione che ha assicurato decenni di pace e sviluppo. Per questo il richiamo ai padri fondatori non è una mera formula, svuotata di senso a furia di ripeterla, ma esprime la forza di un progetto che è stato capace di attrarre progressivamente la maggior parte dei Paesi europei.

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