“Ritengo che nel nostro Occidente si debba cogliere una crisi della fraternità. Possiamo constatarla nel nostro Paese dove, secondo autorevoli letture sociologiche, sono cresciuti il rancore e la cattiveria. E, attraverso la negazione di molti legami sociali, si nega la fraternità”.

Lo scrive Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, nel numero di luglio di Vita Pastorale, anticipato al Sir. Citando il documento Sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, firmato il 4 febbraio scorso ad Abu Dhabi da Papa Francesco e dal Grande Imam di Al-Azhar, Enzo Bianchi segnala che “di fronte alle patologie che ammorbano la nostra convivenza fino a minacciare la vita democratica, di fronte alle paure rinfocolate da poteri e interessi politici, di fronte al rancore che rischia di esplodere in violenza, ma anche di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza di molti, occorre ripensare la fraternità”.

Il fondatore della Comunità di Bose indica, inoltre, la fraternità come “fondamento e ragione per una necessaria fiducia nella convivenza; come solidarietà tra membri di una convivenza in vista del bene comune; come incessante ricostruzione di ponti, di riconciliazioni religiose, culturali ed etniche”. Nelle sue parole un messaggio legato anche alla Chiesa, perché “la Chiesa è chiamata a essere ‘fraternità’ non perché questa sia una sua immagine metaforica, ma perché è il suo nome proprio, la sua essenza”.