di Gigliola Alfaro

Un invito a farsi “illuminare” dal ministero di san Giuseppe Cafasso, chiamato anche “prete della forca”, e ad “affidarsi alla sua protezione”. È quello che rivolge ai cappellani delle carceri italiane l’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi, in occasione della memoria del santo (23 giugno), proclamato patrono dei cappellani e dei ristretti da Papa Pio XII il 9 aprile 1948.
Da san Giuseppe Cafasso, che “ben conosceva il nostro servizio accanto ai reclusi”, “possiamo certamente attingere la forza e un ulteriore slancio per la nostra pastorale penitenziaria – sottolinea don Grimaldi –. Confortava tutti, ma in modo particolare i condannati a morte, per donare loro la speranza cristiana. Con la sua semplicità e mitezza di cuore, si era messo alla ‘ricerca di ciò che era perduto’, insegnando a tutti di non giudicare l’errore dell’altro ma di sanarlo, con la tenerezza della misericordia”.
E aggiunge: “Era un prete che diffondeva e predicava la misericordia e trattava i ‘suoi santi impiccati’ come ‘galantuomini’. È questo che noi tutti cerchiamo di fare con il nostro servizio, anche se non compreso e a volte criticato e ostacolato: difendere la dignità dell’uomo in carcere nonostante i suoi errori, nonostante il male commesso”.
L’ispettore generale ricorda: “La santità di Giuseppe Cafasso era radicata profondamente nel Vangelo e nel suo servizio verso gli ultimi, in particolare verso i carcerati che vivevano in luoghi disumani e disumanizzati, ambienti mal tenuti e soprattutto luoghi affollati, dove si viveva l’abbandono civile e religioso”. In questo tempo di pandemia, precisa don Grimaldi facendo riferimento all’attualità, “siamo stati ‘custodi della speranza’ ma anche afflitti nel vedere l’abbandono, la solitudine e la sofferenza di tanti uomini e donne dietro le sbarre”.
E come san Giuseppe Cafasso “con il suo esempio e l’incisivo apostolato ha dato coraggio e conforto a tutti”, così l’ispettore generale augura ai cappellani “di conoscere sempre il cuore della gente, di essere uomini di ascolto e di comunione, di avere sulla nostra pelle ‘l’odore delle pecore’ per comprendere ancora meglio il dolore, l’angoscia, i disagi, le paure di tutti coloro che gli altri hanno scartato ed emarginato” e, al tempo stesso, “di essere per tutti testimoni autentici del Vangelo affinché, con il nostro esempio di vicinanza e di santità, possiamo trasformare il cuore e la vita di tutti coloro che il Signore ha consegnato nelle nostre fragili mani”.

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