di Ugo Bellesi

Il mese di maggio per chi un tempo viveva in campagna, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non era il migliore dell’anno, in quanto le provviste di grano, di granturco, di legumi, di insaccati e di lardo, erano quasi esaurite e sia la mietitura che – ancor di più – la “pista” di maiale non erano vicinissime. Stavano arrivando frutta e verdura per cui c’erano le fragole per i bambini ma soprattutto carciofi, fava, bietole, spinaci e altre verdure: il contadino diventava vegetariano per forza.

Come risorsa alternativa di proteine c’erano le lumache, più note come chiocciole o cucciole. Infatti bastava una pioggerellina o un temporale (tra fine maggio e primi di giugno) per vedere, al mattino presto o la sera all’imbrunire, gruppetti di due tre persone che si aggiravano per le stradine di campagna, sulle sponde dei fossi e tra i cespugli (se era sera servendosi anche di una lucerna) alla loro ricerca. Oggi però nessuno cerca più le lumache quando piove e anche questa tradizione è finita: per gli amanti delle chiocciole in porchetta ci sono quelle di allevamento. I latini erano golosi di lumache perché credevano fossero afrodisiache. Nel Medioevo le lumache erano pasto abituale perché si riteneva che facessero bene per polmoni e fegato, ma anche perché era cibo che consentiva di rispettare la vigilia (come fosse pesce).

Nel ‘700 in Francia fu il principe di Talleyrand a inserire le chiocciole nel “menù del palazzo”. La nostra tradizione prevede che le lumache si “spurghino” nella semola per almeno 15 giorni e poi, per altri due giorni, siano dilavate nell’aceto. Una volta lessate si preparano in porchetta, con una salsa a base di finocchio selvatico, pomodori e peperoncino. Altre ricette sono: “alla recanatese”, “in potacchio”, “alla moda di Cantiano”, “in tegame”, “alle erbe”, “in graticola” e “alla Esterina”. Le lumache hanno avuto sempre grandi estimatori ma anche tanti denigratori.

Comunque, quando c‘era la mezzadria, oltre alle lumache esistevano altre due risorse di proteine. Una era costituita dalle ranocchie che vivevano lungo fossi, stagni o laghetti. Oggi non si trovano quasi più perché i diserbanti le hanno private dell’elemento principe per nutrirsi. L’altra risorsa erano le trote (famose quelle di Pioraco e Sefro), ma per prenderle bisognava essere bravi pescatori e avere le esche giuste. Purtroppo i nostri fiumi, a causa dell’inquinamento, non hanno più le trote nel loro alveo come un tempo, ma in cambio ci sono tanti allevamenti nell’area dei Sibillini. Ai buongustai va ricordato che le lumache si gustano d’inverno, le rane nei mesi con la R e le trote in autunno. Solo i contadini più fortunati avevano due o tre famigliole di piccioni, ma quelli nati a primavera si dovevano lasciare per la mietitura. La stessa cosa avveniva per gli animali da cortile che le vergare tenevano sotto stretta sorveglianza, nutrendoli oltre il dovuto, perché volevano far bella figura in occasione dei più gravosi lavori agricoli dell’anno che erano appunto la mietitura e la trebbiatura, quando tutte le “opere” si aspettavano di essere rifocillate con lasagne e ricchi piatti di arrosto.

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