MughiniSgarbi

«Basterebbero duecento secondi al missile Sarmat per raggiungere Londra e raderla al suolo. I russi fanno sul serio. Ora ditemi voi cosa c’entriamo con l’Ucraina. Che se la vedano tra di loro Russia e Stati Uniti…».

Un gruppo di genitori sta aspettando l’arrivo della corriera al rientro dalla gita di terza media. Chi parla ha guadagnato il centro della scena, e non intende abbandonarlo. Continua a sparare, senza alcun tentennamento, opinioni di seconda mano, udite più volte in televisione.

Vorrei intervenire, dire la mia, e invece mi allontano, aiutato nella fuga dal continuo strattonare di Bilbo: il piccolo cane ha fiutato qualcosa dietro la siepe. Muso a terra, si lascia guidare dal suo istinto, e non ce n’è per nessuno.Provo una forte insofferenza, la stessa che mi aveva assalito la sera precedente mentre seguivo un talk show televisivo dedicato alla guerra. Opinioni a raffica, nessuna possibilità di ascolto reciproco. Inviti continui a schierarsi, ospiti costretti ad esprimersi per slogan. Perfino le argomentazioni di Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, facevano fatica a trovare spazio. Per non parlare di don Tonio dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, ridotto al ruolo di “anima bella” mentre cercava di difendere le ragioni di una cultura di pace.

Come si garantisce una buona informazione, presupposto per ogni democrazia che voglia definirsi tale? È sufficiente presentare un ventaglio assortito di opinioni contrastanti per consentire agli ascoltatori di comprendere cosa sta accadendo? Il giornalismo può anche nutrirsi di scontri, ma non può avere lo scontro come scopo principale, hanno sottolineato Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani, esperti in diritto dell’informazione, in un articolo pubblicato sul Sole 24 Ore lo scorso 10 aprile. Ci sono trasmissioni – dicono – che cercano sopratutto di dare voce ad opinioni estreme e scioccanti. Il risultato ha poco a che vedere con il dibattito, pochissimo con il giornalismo, e molto con l’intrattenimento, con quelle risse collettive cui si assiste al contempo attoniti e incuriositi.

L’istinto del divario (così lo definisce Hans Rosling, accademico svedese, nel saggio Factfulness) rappresenta una tentazione irresistibile: dividere le cose in due gruppi separati, bianco/nero, buono/cattivo. Un meccanismo che scatta ogni volta che dobbiamo confrontarci con argomenti complessi, e che determina una visione impoverita della realtà. I conduttori dei talk show conoscono questo istinto e spesso lo assecondano, invece di contrastarlo. Si è molto parlato dello scadimento del dibattito pubblico determinato dal linguaggio rissoso dei social. Forse bisognerebbe interrogarsi anche sul ruolo agito dalle trasmissioni televisive. Più che di opinionisti, avremmo bisogno di spazi di approfondimento che ci aiutino ad uscire, almeno parzialmente, dal mare di nebbia nel quale siamo immersi. Da questo punto di vista, forse, l’informazione scritta (stampata o digitale) consente un maggiore spazio per la riflessione e per una preziosa rielaborazione personale.
In fondo i pensieri di un uomo non sono dissimili dal fiuto di un cane che segue tracce invisibili: entrambi si lasciano sedurre. Bisognerebbe essere consapevoli di questa fragilità innata, e tentare di acquisire informazioni che consentano una qualche autonomia di giudizio, evitando di appoggiarsi sempre sulle opinioni altrui.

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