di Adelaide Compagnucci
Chiamavo ormai da vari mesi per cercare di avere un appuntamento. L’istituzione, nota per la sua connotazione “cattolica e umanitaria”, costituita da un presidente e un segretario. Dall’altra parte del telefono la voce metallica e distante come un disco rotto ripeteva sempre le stesse parole, il presidente è occupato non posso fissare ancora un appuntamento. La cosa andava avanti dalla primavera ed io ho cercato di capire quali fossero gli impegni che ostacolavano un appuntamento. La voce squillante e insofferente ha risposto con la solita frase. Ho fatto un po’ di fatica per restare calma e distaccata, sapendo bene che è inutile un dialogo tra sordi. Ho replicato che era sufficiente un messaggio scritto: a me sarebbe bastato per chiudere la questione, non chiedevo di più. Mi ha risposto: “lei deve avere pazienza”.
Avrei voluto chiudere il telefono in faccia al mio interlocutore e dire che neanche Papa Francesco pur essendo malato, e con il peso della Chiesa intera sulle sue spalle lascia senza risposta nessuno, prova ne sono le sue lettere inviatemi tutte le volte che gli ho scritto. La pazienza l’ho esercitata per anni nei deserti aridi della missione, nelle ore assolate delle parrocchie dove in continuazione arrivava gente povera di tutto ma principalmente bisognosa di consigli, pane, compagnia, consolazione. Un lavoro che mi ha consumato dentro come un tarlo che scava lasciando voragini che ancora popolano i miei sogni notturni. “Pazienza” deriva dal verbo patior₌ soffrire, non è un attendere senza speranza, ma per giungere a una meta. Questo mi chiedeva senza saperlo la voce metallica dall’altro lato del telefono. Ignara della mia vita, della mia storia, non scusandosi, ma con la tracotanza di chi occupa un posto di potere, con tanto di stipendio. Mi liquidava così.
Ho pensato ai poveri cristi che possono passare per quella istituzione, dove l’umanità è seppellita, lasciando posto alla burocrazia, l’assassina della compassione e dell’empatia.
Ma mi sono rattristata soprattutto per la Chiesa che ognuno di noi rappresenta e che rischia di trasformarsi in un luogo dove “le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora troppo autoreferenziali…. –Mentre- la Chiesa deve lasciar trasparire il cuore di Dio: un cuore aperto a tutti e per tutti: malati, ammalati, giusti, peccatori, tutti dentro. Di qui la necessità di un esame di coscienza: Dovremmo domandarci quanto facciamo spazio e quanto ascoltiamo realmente nelle nostre comunità le voci dei giovani, delle donne, dei poveri, di coloro che sono delusi, di chi nella vita è stato ferito, di chi è arrabbiato con la Chiesa. Fino a quando la loro presenza resterà una nota sporadica nel complesso della vita ecclesiale, la Chiesa non sarà sinodale, sarà una Chiesa di pochi” (Papa Francesco).
Questa indifferenza la intuisco non solo da quella telefonata ma da altri piccoli gesti: gente che da anni vive nello stesso stabile e saluta con un “salve” pensando così di essere gentile e aver adempiuto a un dovere, dalla commessa di un negozio che, pagata anche per essere cortese ti liquida con un sorriso di convenienza, da quelle persone che ascoltano guardando l’orologio; da quelle che per essere contattate telefonicamente, chiedono una prenotazione come per l’appuntamento con un dottore; da quei messaggi che ti liquidano perché la persona è impegnata ad aggiustare le tovaglie della chiesa e i fiori per la festa patronale. Infine da quanti con il sorriso stampato in bocca, non riescono a stabilire un rapporto, non dico amichevole, ma gentile, educato. Forse dove vivo vi è il limite della città di provincia, ma osservo che è un sentire comune: è difficile che la gente esca dalla sua cerchia per allargare i propri confini per sprovincializzarsi, per non diventare uomini e donne murati vivi.
Mi risuona attuale la preghiera di don Tonino Bello: Donaci, Signore, la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi. Forse per questo dopo tanto tempo ho ricominciato a scrivere, perché delle nostre parole dobbiamo rendere conto agli uomini. Ma dei nostri silenzi dobbiamo rendere conto a Dio… Perché stare con gli ultimi significa lasciarsi coinvolgere dalla loro vita. Prendere la polvere sollevata dai loro passi. Guardare le cose dalla loro parte (Don Tonino Bello).
Non basta sedersi in prima fila nella nostra chiesa e ambire a diventare le perpetue delle nostre parrocchie, lettori, sacrestani e via dicendo; ma occorre coltivare le amicizie, incontrare la gente. Così quanto più numerosi sono gli incontri con la gente, quante più sono le persone a cui stringiamo la mano, più noi cresciamo.
Essere uomini e donne liberati, non solo liberi, che dona tempo libero agli altri, liberatori che liberano gli altri dalle angosce (Cfr. Don Tonino Bello).
I nostri incontri curiali non possono iniziare parlando della situazione economica della Chiesa, ma della nostra speranza, della nostra fede. Nessuno ci avvicinerà se non tocchiamo le sue ferite, le sue angosce i suoi problemi famigliari non certo per risolverli ma per ascoltare.
In questi pochi anni io, italiana straniera nel mio Paese e ancora di più nella mia Chiesa di origine, mi sono imbattuta in tanti problemi famigliari. Drammi nascosti e profondi, vissuti in isolamento e con la completa indifferenza di chi nella Chiesa dovrebbe essere preposto ad ascoltare, consigliare, discernere. Matrimoni lasciati in balia delle onde in un mare di indifferenza e scetticismo, soprattutto dai pastori: L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro…
Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” (Papa Francesco). Nessuno è esente da questo pericolo, io in primis, per questo; insieme a don Tonino, concludo con questa preghiera, affinché i miei scritti e le mie parole non suonino come accuse stupide impregnate di vittimismo, ma come l’eco di un urlo di tanti miei amici e fratelli:
Salvami Signore dalla presunzione di sapere tutto,
dall’arroganza di chi non ammette dubbi;
dalla durezza di chi non tollera ritardi;
dal rigore di chi non perdona debolezze;
dall’ipocrisia di chi salva i principi e uccide le persone.
Trasportami, dal Tabor della contemplazione,
alla pianura dell’impegno quotidiano.
E se l’azione inaridirà la mia vita,
riconducimi sulla montagna del silenzio.
Dalle alture scoprirò ì segreti della «contemplatività»,
e il mio sguardo missionario
arriverà più facilmente agli estremi confini della terra (Don Tonino Bello).