di Marina Corradi (Avvenire)

«Domattina, a Dio dirò grazie. Come faccio da quando ero bambino, ogni giorno. “Grazie”, che è la parola più semplice, e fondamentale. Perché nel dirla sta il riconoscere di avere ricevuto un dono, di cui si è grati; e chi è grato è portato, a sua volta, a donare».

Dieci anni oggi dalla morte, il 28 luglio 2013, del cardinale Ersilio Tonini. Queste sue parole risalgono a pochi anni prima. Vigilia del 20 luglio 2009, a Ravenna. Il cardinale avrebbe compiuto il giorno dopo 95 anni. Uguale a sempre, il volto magro e gli occhi benigni e attenti. Lucidissimo. Lo avevo conosciuto quasi vent’anni prima, in un viaggio per Avvenire in Amazzonia, fra gli indios minacciati d’estinzione. Non dimenticherò Tonini, allora vescovo di Ravenna, quando entrammo nella manioca, la grande capanna del capotribù yanomami. Nella penombra mamme che allattavano neonati, vecchi, bambini che si rincorrevano fra le galline. Tonini incantato: «Questo è il mondo come al principio», disse, in un devoto stupore.

Quel giorno del 2009 ormai il cardinale lo conoscevo bene, eppure ancora mi meravigliava. Un uomo grato, mi dicevo – non ce n’era più molti, in giro. In lui una singolare mancanza di amarezza o di recriminazione. Grato, di tutto. Come se tutto, e ogni prova o dolore, fosse stata per un bene.

Nato a Centovera, Piacenza, nel 1914, figlio di Celestina e del capobifolco Cesare Tonini, in una cascina lombarda. “Capobifolco”, chi sa ancora questa parola? Il responsabile di 300 ettari di terra, dall’alba a sera nei campi con i braccianti e con gli aratri tirati dai buoi. Quando non pioveva da molto si andava in processione dietro al Crocifisso. Quando un bambino aveva la febbre a 40 ugualmente si pregava, c’era ben poco d’altro da fare.

Tonini fu per me uno straordinario testimone del Novecento, appena finito e già così lontano. E un testimone vivo, sorridente, che volentieri raccontava. Andavo a intervistarlo e ogni volta sarei rimasta lì ad ascoltare: mi racconti, avrei voluto chiedere, ancora. Grato, innanzitutto, era Tonini, di quell’infanzia e di quei genitori. Di quella madre che insegnava ai figli, insieme alle preghiere, «lo stupore di fronte alla realtà, uno stupore che si rinnovava ogni mattina».

Questo era il marchio di un ragazzo ordinato il 18 aprile 1937, a 23 anni, e che sarebbe stato vescovo nel 1969 con Paolo VI, e cardinale nel 1994 con Giovanni Paolo II.

1937, capite, prima che i nostri genitori o nonni si conoscessero, sotto il fascismo, la guerra che di nuovo andava covando in Europa. Ben 76 anni di Messa. Parroco dapprima per quindici anni a Salsomaggiore. Stava quattro ore al giorno in confessionale. Feci il conto: quattro ore al giorno per quindici anni: quanto del male nostro aveva ascoltato quel prete minuto, e come faceva, ancora, a credere nel bene e negli uomini?

Eppure di questo bene Tonini non dubitava mai. Davvero sorprendente per una della mia generazione, cui era stato insegnato a dubitare di tutto, fino ad arrivare al nulla. «Io ho una profonda stima dell’uomo» diceva. «I peccati, non mi hanno mai scandalizzato. Su tutto, prevale in me la meraviglia per la coscienza donata a ciascuno di noi. Quella coscienza che è il luogo della nostra libertà, e della possibilità di scegliere, alla fine, il bene». Da quanto lontano, sentivo, veniva quella benevola saggezza. Lo aveva capito Enzo Biagi, che ne fece in un volto caro agli italiani.

Si poteva, in quella stanza colma di libri a Ravenna, osare domande su parole che normalmente non si pronunciano. Vecchiaia, per esempio. Il tempo ci è dato, diceva il cardinale perché, nel fondo della nostra libertà, scegliamo il bene. E dunque, non c’è da avere paura degli anni che passano.

Addirittura si poteva parlare con lui di morte. Eminenza, della morte, dell’aldilà, che immagine ha a 95 anni? chiesi. «Oltre la morte, sarà bellissimo. Perché vedremo finalmente la nostra storia, tutta intera. Voglio dire: vedremo la storia di ciascuno di noi, dal suo vero principio, dall’istante in cui Dio ci ha concepito nei suoi pensieri. Perché ciascuno è stato pensato, progettato dall’inizio del tempo. È una prospettiva sterminata. È posare gli occhi sull’orizzonte infinito per cui sono stati fatti. Sarà, l’abbraccio di Cristo, una felicità ineguagliabile».

Quando Tonini morì, quattro anni dopo, a 99 anni compiuti, mi tornarono in mente quelle sue parole, e non seppi essere triste. «Una felicità ineguagliabile», aveva detto, che ora quell’uomo vedeva non più confusamente, ma «faccia a faccia». «Un generoso pastore», disse di lui papa Francesco. (Ce ne mandasse ancora Dio di uomini così. E di madri e padri, capaci di crescere figli come quest’uomo).

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