Ci ricorderemo a lungo della domenica di Pasqua di quest’anno, penso mentre rientro in casa dopo essere uscito a comprare i giornali. Non riesco a scrollarmi di dosso il senso di irrealtà, causato da un profondo disorientamento. Eppure le strade erano quelle solite del mio quartiere. Però deserte. Non ho incontrato nessuno. Nessuna traccia degli odiati runner. Solo un ragazzo con una maglietta verde acqua, lo stesso colore della mascherina. Portava a spasso un cane di piccola taglia sul cui collare era applicato un cono protettivo.

Dove è finito il nostro prossimo?, ha dichiarato provocatoriamente il filosofo Giorgio Agamben, riferendosi alle norme di distanziamento sociale. Forse non è proprio così; forse il prossimo si è solo spostato, e noi facciamo fatica a rendercene conto. Siamo passati improvvisamente da una socialità che dilagava nelle piazze, a relazioni ristrette di cortile. Tanti piccoli cortili si sono sovrapposti agli altri cortili, quelli virtuali dei social, che da tempo siamo soliti frequentare. Isole adiacenti, collegate da autostrade telematiche prese improvvisamente d’assalto da un flusso ininterrotto di merci, informazioni, pratiche amministrative, conversazioni, omelie.

Mi siedo in terrazzo, prendo un caffè. Nessun rumore di traffico. Lo sportellino di una lanterna Ikea, che ho tenuto accesa tutta la notte – la notte del sabato santo – sbatte a causa del vento. Si sentono dei cani abbaiare. Grida di bambini, adulti che chiacchierano dai balconi. Il suono domestico di stoviglie riordinate, utensili caduti in terra. Un uomo ha inventato un gioco con la figlia: getta la palla sopra un tetto spiovente e attende che scenda, chi la prende per primo vince. Case piene di gente, una accanto all’altra. Gomito a gomito, come in un villaggio-vacanza. Qualcuno spara a tutto volume un tormentone della scorsa estate. Sento il rumore secco di una zanzariera che si apre: tra un attimo Mario, l’inquilino dell’appartamento di sopra, uscirà sul balcone a fumare una sigaretta.

Come stiamo vivendo questa prossimità di cortile? Ci si aiuta o ci si spia, ora che la diffidenza che prima colpiva gli stranieri si è insinuata tra di noi con la pervasività diabolica di una guerra civile, e si aggrappa come un parassita alla necessità di restare lontani? Gesti di condivisione si alternano a sospetti da comari: «Guarda che quello è uscito di casa e non aveva nessun motivo per farlo, bisognerebbe chiamare i carabinieri…». Da questo punto di vista, il passaggio dalle discussioni tra vicini al chiacchiericcio astioso dei cortili sul web è del tutto naturale.

Come ha sottolineato il sociologo Derrick de Kerchove, per ogni uomo connesso si sviluppa un doppio digitale. Le tracce che lasciamo in rete sono archiviate e analizzate per fornire informazioni, consigli, obblighi. Questo nostro alter ego virtuale può diventare un liberatore oppure un grande inquisitore, che proprio in questi giorni di pandemia cerca di cavalcare le ondate di emotività negativa che hanno finito per prendere il sopravvento.

È curioso come la parola “virale” si sia imposta già da tempo per definire la diffusione incontrollata, tipica della nostra società iper connessa, di contenuti e informazioni. Tutto ciò che procede per contagio e precipitazione, ha affermato la psicanalista Julia Kristeva, dopo un inizio scintillante genera un’esplosione mortifera. E alla fine, tutto quello che resta è una profonda solitudine. Restiamo soli davanti agli schermi, e questo spiega l’angoscia e la collera di questi giorni.

Flussi online e relazioni di cortile. Sarà questo lo scenario dei prossimi anni, nel quale dovremo esercitare l’arte esigente del “farsi prossimo”?

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